IL PRINCIPIO DELLE COMUNI MA DIFFERENZIATE RESPONSABILITÀ

Si intende approfondire nel presente articolo il principio delle comuni ma differenziate responsabilità (Common but differentiated responsibilities - CBDR) che costituisce uno dei pilastri del diritto internazionale ambientale e dello sviluppo sostenibile. Si affronteranno i temi della responsabilità ambientale degli Stati nel Diritto Internazionale, delle responsabilità comuni e differenziate, l'applicazione di tali principi nella Convenzione Quadro sul Clima.
 
§ 1. Premessa.
Il principio di comuni ma differenziate responsabilità (Common but differentiated responsibilities - CBDR) è uno dei pilastri del diritto internazionale ambientale e dello sviluppo sostenibile. È emerso inizialmente ed è stato esplicitamente formulato nel contesto della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, il cosiddetto Earth Summit. Il principio trova le sue origini in considerazioni e principi generali di equità del diritto internazionale. In particolare, il principio di comuni ma differenziate responsabilità informa la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC – United Nations Framework Convention on Climate Change)1, il Protocollo di Kyoto, nonché costituisce uno dei principi guida della politica climatica su cui si fonda il nuovo accordo internazionale che ha sostituito il Protocollo di Kyoto, vale a dire l’Accordo di Parigi.
La presenza di gas ad effetto serra nell’atmosfera2, condizione fisiologica che provoca il c.d. effetto serra naturale 3, ha subìto negli ultimi decenni gravi alterazioni. Secondo la comunità scientifica, il mutamento climatico è causato dall’aumento della concentrazione di gas a effetto serra, imputabile principalmente alle attività antropiche legate all’uso di combustibili fossili e dei suoli negli ultimi due secoli4. Il controllo delle emissioni climalteranti5 è problemache richiede soluzioni globali.
Alla base del principio, consacrato come detto dalla Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 su ambiente e sviluppo, è il riconoscimento della diversa intensità con cui gli Stati contribuiscono al deterioramento ambientale: specularmente, ancorché la tutela dell’ambiente rappresenti un obiettivo comune della Comunità internazionale, gli Stati sviluppati sarebbero onerati da una più grave responsabilità nel perseguimento dello sviluppo sostenibile. Riferito al cambiamento climatico, il principio in discorso non solo giustificherebbe i più stringenti obblighi a carico degli Stati sviluppati, ma imporrebbe a essi anche doveri di ausilio a favore dei Paesi in via di sviluppo. Così, sembra che gli Stati siano ricorsi al principio delle responsabilità comuni ma differenziate per aggirare i problemi di applicazione del regime classico di responsabilità6 al fenomeno del cambiamento climatico: i Paesi genericamente ritenuti responsabili per il cambiamento climatico sarebbero gravati da obblighi nei confronti degli Stati in via di sviluppo, che de facto gioverebbero di una sorta di riparazione, pur in mancanza dell’accertamento di particolari illeciti internazionali imputabili a Stati specifici. 
 
§ 2. Introduzione: responsabilità ambientale degli Stati nel Diritto Internazionale.
In generale, la responsabilità ambientale degli Stati è un principio generale del diritto internazionale7. Il Principio 2 della Dichiarazione di Rio stabilisce che: “Conformemente alla Carta delle Nazioni Unite ed ai principi del diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo, ed hanno il dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri stati o di aree situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale”. Questo principio di responsabilità per atti che causino danni transfrontalieri trova le sue origini nel Trail Smelter Arbitration, che chiarì come il principio di sovranità incontra un limite nei diritti di un altro Stato sovrano, dal momento che “nessuno Stato ha il diritto di usare o di permettere l’utilizzo del proprio territorio in maniera tale che possa causare danni nel o al territorio di un altro Stato, o a beni o persone di questo”. La Corte Internazionale di Giustizia ha poi riaffermato che “l’esistenza di un generale obbligo in capo agli Stati di assicurare che attività che avvengano nella loro giurisdizione e sotto il loro controllo rispettino l’ambiente di altri Stati e di aree che siano al di fuori di ogni giurisdizione statale” sia oramai parte del corpus di legislazione ambientale internazionale.
Va rilevato però che questo tipo di responsabilità, che esprime una ragionevole commisurazione di diritti e obblighi degli Stati in materia di responsabilità, intende proteggere uno Stato da danni alla sua proprietà (territorio) causati da un altro Stato (o da attività sotto il controllo di un altro Stato).
Questo profilo di responsabilità non regola la protezione di risorse comuni globali, o che comunque non ricadano sotto alcuna giurisdizione esclusiva Statale, come ad esempio il clima. A tal fine va considerata una responsabilità “condivisa” o comune, espressione di quello che Drumble chiama uno “shared compact”, e che riflette sottostanti obblighi di cooperazione, buon vicinato e solidarietà con riguardo all'accesso, gestione e protezione di risorse comuni.
 
§ 3. Responsabilità comuni e differenziate.
Il principio numero 7 della Dichiarazione di Rio fornisce la prima formulazione del principio di comuni ma differenziate responsabilità, affermando che:
“[...] In considerazione del differente contributo al degrado ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui dispongono”.
 
§ 4. Origine della responsabilità comune.
Il principio ha due matrici.
La prima è rappresentata dalla responsabilità comune, e trova i suoi antecedenti nel principio di comune patrimonio dell’umanità. Questa matrice comune è stata materialmente espressa in diversi Trattati Internazionali, in materie quali la protezione dei tonni e altre specie ittiche, lo Spazio e la Luna, il patrimonio culturale e naturale, uccelli acquatici, il fondo e il sottosuolo del mare internazionale. Più recentemente strumenti giuridici internazionali hanno qualificato come comune interesse dell’umanità il clima terrestre e la diversità biologica.
In particolare, le parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, nel preambolo, si dichiarano “consapevoli che i cambiamenti di clima del pianeta e i relativi effetti negativi costituiscono un motivo di preoccupazione per il genere umano”. La comune responsabilità riflette il dovere degli Stati di condividere equamente l’onere della protezione ambientale per le risorse globali comuni, i cosiddetti global commons. Questo interesse giuridico – e socio-ambientale – in comune è una fondante spinta alla cooperazione nella gestione e protezione di risorse globali quali l’atmosfera e il ciclo del carbonio.
 
§ 5. Responsabilità differenziata.
La seconda matrice esprime una duplice preoccupazione. In primo luogo è espressione di una volontà di commisurare la partecipazione alla protezione di tali risorse comuni alla specifiche condizioni socio-economiche e alle capacità finanziarie e infrastrutturali dei singoli paesi, così da raggiungere una sostanziale equità della distribuzione dei costi che bilanci i criteri formali di eguaglianza tra Stati sovrani. Questo aspetto risale già al principio di Trattamento Differenziato, la cui lunga storia è fatta risalire almeno al Trattato di Versailles del 1919 e a Trattati navali successivi alla Prima Guerra Mondiale. Il Trattamento Differenziato riflette la necessità di considerare condizioni materiali differenti attraverso la “gradazione” degli obblighi assunti dalle varie Parti, o attraverso la contestualizzazione di tali obblighi. Magraw8 distingue a questo proposito tre tipologie di norme: norme assolute, che si applicano egualmente a tutte le Parti; norme contestuali, che si applicano ad ogni Parte tenendo conto delle speciali circostanze di ogni Parte, quali condizioni socio-economiche, capacità tecnico-finanziarie etc.; norme differenziate, che operano una differenziazione esplicita, ad esempio attraverso differenti orizzonti temporali entro i quali procedere all’adempimento delle obbligazioni stipulate.
Il principio del Trattamento Differenziato è anche riconosciuto nell’ambito del Diritto Internazionale Economico, e in particolare nella normativa dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con il nome di “trattamento speciale e differenziato”. Tale normativa ha il fine di consentire ai paesi in via di sviluppo (PVS) di adattarsi alla liberalizzazione del commercio, attraverso previsioni di assistenza tecnica, termini temporali di adempimento elastici, flessibilità nell'adempimento etc.
Il punto cruciale però, e di novità, del principio di comuni ma differenziate responsabilità risiede nella considerazione esplicita delle responsabilità storiche dei singoli paesi alla determinazione di specifici danni ambientali – e in particolare per quanto riguarda i contributi9 in termini di emissioni di gas serra. Ed è proprio questa seconda dimensione, e cioè il nesso che il principio di comuni ma differenziate responsabilità stabilisce tra il passato sfruttamento economico dei commons globali e la responsabilità di intraprendere attività tese a rimediare o mitigare le conseguenze di tale sfruttamento, che si pone come particolarmente importante.
Prima di Rio tali disparità materiali e socio-economiche venivano integrate in accordi internazionali, come brevemente menzionato, attraverso il principio del trattamento differenziato. Il principio del Polluter Pays (“chi inquina paga”) dall’altra parte, assegna la responsabilità di sopportare i costi di rigenerazione e riparazione di danni ambientali a colui che inquina. La novità introdotta dal principio di comuni ma differenziate responsabilità sta quindi proprio nell’emergenza della dimensione storica, che introduce un elemento di correzione a fondamento di una equa redistribuzione delle responsabilità. In questo senso va oltre sia al principio del trattamento differenziato che a quello del principio del Polluter Pays. In sintesi, il principio di comuni ma differenziate responsabilità esprime la necessità di valutare la responsabilità in una dimensione storica ed in funzione della cooperazione internazionale, della solidarietà e dell’equità.
 
§ 6. Equità e narrative del consumo.
Le problematiche etiche poste dai cambiamenti climatici sono molte, e complesse, sia in senso geografico che temporale. L’equità intragenerazionale deve risolvere i problemi legati alla diseguale distribuzione dei costi del consumo dei cosiddetti “servizi ambientali”, nonché dei benefici di tale consumo nel presente. Nel caso dei cambiamenti climatici, tali costi sono rappresentati dai potenziali effetti dannosi, mentre i benefici sono l’accumulazione di ricchezza avvenuto attraverso quei processi economici e industriali che hanno generato il problema per via delle emissioni climalteranti conseguenze di tali processi. E come ampiamente mostrato dai rapporti dell’IPCC10 (2001 e 2007), i danni da cambiamenti climatici saranno distribuiti principalmente nelle aree geografiche che meno (o nulla) hanno contribuito al surriscaldamento globale. Già Kofi Annan, durante la COP12 tenutasi a Nairobi, denunciava questa asimmetria sociale e geografica tra cause ed effetti dei cambiamenti climatici, e reiterava vigorosamente l’appello ai paesi industrializzati a dimostrare il ruolo di leadership da loro assunto nel regime climatico attraverso concrete azioni volte a ridurre gli impatti dei cambiamenti climatici, ed a fornire appropriato supporto economico ai paesi in via di sviluppo per l’adattamento a quei cambiamenti oramai inevitabili.
In una dimensione temporalmente dinamica invece, l’equità intergenerazionale richiede che gli interessi delle generazioni future siano sufficientemente considerati nei processi decisionali di oggi.
Questo elemento di equità (e sostenibilità) intergenerazionale, e la considerazione storica delle emissioni dei gas serra e della conseguente alterazione del budget energetico della Terra sono direttamente legate alle modalità di produzione e consumo del mondo industrializzato. Ed è la questione del consumo che si pone come centrale nel quadro della distribuzione della responsabilità per i cambiamenti climatici.
Dal momento che i cambiamenti climatici sono principalmente il risultato dell’accumulazione di gas serra nell’atmosfera in conseguenza di attività industriali, la responsabilità per tali emissioni può essere “seguita” nel tempo attraverso una doppia narrativa del consumo. In primo luogo il consumo è direttamente collegato alla produzione di beni e servizi consumati da individui e comunità, e che determina un “impronta” ecologica ben specifica e una serie di conseguenze in termini di uso del territorio, consumo delle risorse naturali ed emissioni di gas serra. In secondo luogo, e parallelamente, vi è un consumo della capacità di assorbimento della atmosfera delle emissioni climalteranti. Questa seconda narrativa corrisponde ad attività di consumo diretto dei servizi ecologici forniti dal ciclo del carbonio terrestre, e particolarmente la capacità di assorbimento e circolazione del carbonio immesso nell’atmosfera dalle attività umane.
Entrambe queste narrative del consumo mostrano una sproporzione enorme tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, sproporzione che si vuole eliminare attraverso differenziate responsabilità, in modo tale che il diritto allo sviluppo dei paesi in via di sviluppo non entri in conflitto (o non in maniera troppo decisa) con la necessità di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, e che la responsabilità storica sia giustamente considerata nella definizione degli obblighi di contribuzione alla risoluzione del problema del surriscaldamento globale.
Il riferimento a dei dati renderà più chiara questa disparità. Tra il 1900 e il 1990 gli Stati Uniti hanno contributo il 30% dell’accumulazione dei gas serra nell’atmosfera (e quindi del surriscaldamento del clima), l’Europa il 27%, la Cina e l’India (insieme ad altri paesi Asiatici in rapido sviluppo) il 12%, l’Africa e il Sud America poco più del 6%. Queste differenze sono già molto marcate, ma esaminando i dati pro capite, il divario diventa un abisso. Le emissioni pro capite negli USA erano, nel 2000, circa 20.2 tonnellate di CO2 a persona, 16.9 in Canada, 10.6 in Russia e 9.5 nel Regno Unito. Nei paesi in via di sviluppo queste emissioni erano di 3.4 tonnellate di CO2 a persona in Messico, 2.6 in Cina, 1.9 in Brasile, 1.0 in India, 0.3 in Kenya e 0.1 in Burkina Faso.
Ora ci sembra che le differenti responsabilità abbiano trovato una prospettiva significativa, soprattutto ai fini di una differenziazione degli obblighi di riduzione delle emissioni, e dei relativi costi di implementazione.
Eppure c’è dell’altro. Studi recenti hanno posto l’attenzione sul nesso consumo-emissioni da un altro angolo visuale. Attraverso l’analisi del cosiddetto carbon leakage e della displaced pollution (ossia fenomeni di “emigrazione” dell’inquinamento da un paese all’altro, in funzione di minori costi del lavoro e di una regolamentazione ambientale meno ferrea), questi studi mostrano come sia importante guardare al “consumo finale” per allocare la responsabilità delle emissioni, e non solo all’aspetto territoriale della produzione. Infatti le emissioni “incorporate” nel commercio internazionale rappresentano circa il 20% delle emissioni globali, e da questo punto di vista i paesi industrializzati sono “importatori di emissioni”, mentre i paesi in via di sviluppo le esportano: fino al 23% delle emissioni cinesi sono determinate da produzione finalizzata all’esportazione, e i cui prodotti sono consumati altrove (e principalmente negli Stati Uniti e in Europa).
 
§ 7. Applicazione del principio nella Convenzione Quadro sul Clima.
Il principio di comuni ma differenziate responsabilità è diventato un punto di riferimento etico e politico, prima ancora che giuridico, nel quadro del diritto internazionale ambientale, e del diritto internazionale dello sviluppo sostenibile. Il suo status giuridico però è incerto e fonte di discussioni dottrinarie, almeno al di fuori della sua formulazione positiva espressa nella UNFCCC”. Nel diritto positivo internazionale l’aspetto della differenziazione è espresso in una serie di Multilateral Environmental Agreements. Questa differenziazione ha variamente preso la forma di differenti standards, obblighi commisurati a capacità materiale/economiche, matrici temporali di compliance diversificate etc.
È solo nell’ambito del regime climatico però che all’elemento centrale del principio – la dimensione di responsabilità storica - viene data concreta espressione normativa. Il preambolo della UNFCCC riconosce che “la portata mondiale dei cambiamenti climatici richiede la più vasta cooperazione possibile di tutti i Paesi e la loro partecipazione ad un’azione internazionale adeguata ed efficace in rapporto alle loro responsabilità comuni ma differenziate, alle rispettive capacità e alle loro condizioni economiche e sociali”. L’articolo 3(1) della stessa Convezione stabilisce che “Nello svolgimento delle azioni intese a raggiungere l’obiettivo della Convenzione e ad adempierne le disposizioni, le Parti devono” inter alia “proteggere il sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni, su una base di equità e in rapporto alle loro comuni ma differenziate responsabilità e alle rispettive capacità. Pertanto i Paesi sviluppati che sono Parti alla Convenzione, devono prendere l’iniziativa nella lotta contro i cambiamenti climatici e i relativi effetti negativi”. Ma v’è di più. Ogni Parte della Convenzione deve considerare la lista di obblighi di cui all’articolo 4 “Tenendo conto delle loro responsabilità comuni, ma differenziate e delle loro specifiche priorità nazionali e regionali di sviluppo, dei loro obiettivi e delle diverse circostanze”.
 
§ 7.1. Applicazione del principio nel Protocollo di Kyoto.
Il Protocollo di Kyoto è stato siglato l’11 dicembre 1997 durante la Conferenza delle Parti di Kyoto (COP-3), ma è entrato in vigore solo il 16 febbraio 2005 grazie alla ratifica da parte della Russia (avvenuta nel novembre 2004). Per poter entrare in vigore era necessario infatti che venisse ratificato da non meno di 55 Nazioni che rappresentassero il 55 per cento delle emissioni serra globali di origine antropica. Prevedendo per la prima volta obiettivi di riduzione delle emissioni per i Paesi industrializzati, si configura come il primo passo per l’attuazione dell’obiettivo della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici.
Il Protocollo di Kyoto ripropone il principio come elemento fondante della sua struttura etica. All’articolo 10 infatti il Protocollo stabilisce che le Parti devono tener conto “delle loro comuni ma differenziate responsabilità e delle loro specifiche priorità di sviluppo nazionale e regionale, dei loro obiettivi e delle loro circostanze”, per poi elencare obiettivi di cooperazione e di politiche climatiche nazionali e regionali.
Più nel dettaglio, la Convenzione sul Clima, laddove stabilisce gli obblighi per le parti, opera una distinzione tra obblighi comuni e obblighi differenziati. All’articolo 4 infatti, dove sono elaborati gli obblighi delle parti, mentre il paragrafo 1 propone una lista di obbligazioni comuni, il paragrafo 2 afferma che le “parti industrializzate e altre parti incluse nell’Allegato I si obbligano specificatamente”, per poi fare un elenco di tali obblighi specifici. Questo elenco include, tra l’altro, l’adozione di “politiche nazionali” e “corrispondenti provvedimenti per mitigare i cambiamenti climatici, limitando le emissioni causate dall’uomo di gas ad effetto serra e proteggendo e incrementando i suoi pozzi e serbatoi di gas ad effetto serra”; richiamando il ruolo di leadership poi assegnato ai paesi sviluppati, il sottoparagrafo b prosegue stabilendo obblighi di comunicare “entro sei mesi dall’entrata in vigore della Convenzione nei suoi confronti e in seguito periodicamente, informazioni particolareggiate sulle sue politiche e misure di cui al precedente sottoparagrafo”.
Per quanto riguarda poi gli obblighi quantificati di riduzione delle emissioni stabiliti nel Protocollo di Kyoto, la differenziazione segue la logica dell’Allegato I/Non-Allegato I: sono solamente le Parti incluse nell’Allegato I della Convenzione che hanno obblighi quantificati di riduzione delle emissioni di gas serra, e la cui specifica quantità, espressa in percentuale rispetto alle emissioni di ciascun paese nel 1990, è specificata nell’Allegato B del Protocollo di Kyoto. In particolare, le parti “incluse nell’Allegato I assicureranno, individualmente o congiuntamente, che le loro emissioni antropiche aggregate, espresse in equivalente–biossido di carbonio, dei gas ad effetto serra indicati nell’Allegato A, non superino le quantità che sono loro attribuite, calcolate in funzione degli impegni assunti sulle limitazioni quantificate e riduzioni specificate nell’Allegato B e in conformità alle disposizioni del presente articolo, al fine di ridurre il totale delle emissioni di tali gas almeno del 5% rispetto ai livelli del 1990, nel periodo di adempimento 2008–2012”. Altri obblighi che rispondono ad una logica di differenziazione si ritrovano in tutto il Protocollo. In particolare si possono menzionare l’obbligo di “aver ottenuto nel 2005, nell’adempimento degli impegni assunti” (articolo 3.2) e dovranno preparare “un sistema nazionale per la stima delle emissioni antropiche dalle fonti e dall’assorbimento dei pozzi di tutti i gas ad effetto serra non inclusi nel Protocollo di Montreal” (articolo 5.1).
Ulteriori meccanismi funzionali all’applicazione del principio di comuni ma differenziate responsabilità nella politica di cooperazione internazionale per la mitigazione dei cambiamenti climatici e dei loro effetti dannosi sono gli impegni stabiliti sia dalla Convenzione che dal Protocollo in materia di trasferimento di tecnologia (articoli 10 e 11) e di assistenza finanziaria (articolo 11) per la mitigazione e l’adattamento dei paesi in via di sviluppo, attraverso la Global Environmental Facility (GEF). Il GEF gestisce due fondi sotto l’egida della Convenzione: lo Special Climate Change Fund e il Least Developed Countries Fund; sotto l’egida del Protocollo di Kyoto, il GEF gestisce invece il Kyoto Protocol Adaptation Fund. Questi meccanismi hanno tutti la finalità di attuare il principio in pratica, operando una redistribuzione degli oneri finanziari implicati in attività di mitigazione dei, e adattamento ai, cambiamenti climatici.
Infine, nel preambolo della Convenzione, si riconosce che le parti sono “consapevoli che la portata mondiale dei cambiamenti climatici richiede la più vasta cooperazione possibile di tutti i Paesi e la loro partecipazione ad un’azione internazionale adeguata ed efficace in rapporto alle loro responsabilità comuni ma differenziate, alle rispettive capacità e alle loro condizioni economiche e sociali”, mentre il ruolo di leadership è richiamato nell’articolo 3.1: “i Paesi sviluppati che sono Parti alla Convenzione, devono prendere l’iniziativa nella lotta contro i cambiamenti climatici e i relativi effetti negativi”.
 
§ 7.2. Applicazione del principio nell’Accordo di Parigi.
L’Accordo di Parigi (Paris Climate Agreement) sul clima, siglato il 12 dicembre 2015 nell’ambito della ventunesima Conferenza delle Parti della UNFCCC (COP-21), rappresenta un’intesa fondata sulla consapevolezza, finalmente diffusa, che il pianeta è minacciato dal cambiamento climatico e dal riscaldamento globale. Il Paris Climate Agreement è entrato in vigore il 4 novembre 2016, a meno di un anno dalla sua sottoscrizione.
Si compone di due documenti: la Decisione (Decision) e l’Accordo di Parigi (Paris Agreement), che formalmente costituisce un allegato della prima. Si tratta di atti separati, con diversa efficacia giuridica: solo l’Accordo è atto vincolante per le parti e in quanto tale è soggetto alla ratifica degli Stati contraenti. La Decisione, che pur essendo uno strumento giuridico adottato in esecuzione della Convenzione non ha carattere vincolante, prevede le iniziative che gli Stati dovranno porre in essere prima del 2020, al fine di prepararsi all’entrata in vigore dell’Accordo e migliorare ed implementare le proprie iniziative programmatiche11.
L’accordo supera l’impianto del Protocollo di Kyoto12 e ne capovolge la strategia. Non più obiettivi vincolanti imposti ai soli Paesi industrializzati13 – obiettivi da subito giudicati insufficienti e comunque (con l’eccezione dell’Unione europea14) disattesi – ma una strategia fondata sulla partecipazione degli Stati tutti, in ragione di una responsabilità comune ma differenziata, con contributi – differenziati, appunto – determinati a livello nazionale da ciascuno Stato con appositi piani. Il rispetto degli impegni non è assistito da un apparato sanzionatorio, ma favorito da regole di trasparenza e di informazione e da strumenti di assistenza tecnica e di cooperazione. L’obiettivo è mantenere l’aumento della temperatura terrestre molto al disotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali, con l’intento di contenerlo entro 1,5°C.
L’Accordo di Parigi consacra il superamento di tale impostazione – superamento già in nuce nell’accordo di Copenhagen (COP-15) del 2007 – con il ritorno all’originaria accezione di responsabilità comune a tutti gli Stati, sia pure differenziata in base alle diverse capacità ed esigenze di sviluppo sostenibile.
Il Preambolo riconduce l’esigenza di una risposta efficace all’urgente minaccia dei cambiamenti climatici che si basi sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili, nonché nell’ambito della tutela e promozione dei diritti umani15 ed afferma l’importanza dell’istruzione, della sensibilizzazione e della partecipazione del pubblico, dell’accesso all’informazione nonché della cooperazione a tutti i livelli sui temi affrontati. Altresì, il Preambololo:
ribadisce il principio dell’equità e delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali;
riconosce le esigenze specifiche e le circostanze speciali delle parti che sono paesi in via di sviluppo, in particolare quelle che sono particolarmente vulnerabili agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, e ciò anche per quanto riguarda i finanziamenti ed il trasferimento di tecnologia.
L’art. 2 dell’Accordo così recita sul punto: “1. Il presente accordo, nel contribuire all’attuazione della convenzione, inclusi i suoi obiettivi, mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici, nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi volti a eliminare la povertà, in particolare: a) mantenendo l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici; b) aumentando la capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e promuovendo la resilienza climatica e lo sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra, con modalità che non minaccino la produzione alimentare; c) rendendo i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima. 2. Il presente accordo sarà attuato in modo da riflettere l’equità ed il principio delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali.”
L’art. 4 dell’Accordo così recita sul punto: “1. Per conseguire l’obiettivo di temperatura a lungo termine di cui all’Articolo 2, le Parti tendono a raggiungere il picco globale di emissioni di gas ad effetto serra al più presto possibile, riconoscendo che ciò impiegherà maggior tempo per le Parti che sono paesi in via di sviluppo, e ad intraprendere rapide riduzioni in seguito, in linea con le migliori conoscenze scientifiche a disposizione, così da raggiungere un equilibrio tra le fonti di emissioni antropogeniche e gli assorbimenti di gas ad effetto serra nella seconda metà del corrente secolo, su una base di equità, e nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi tesi a sradicare la povertà. 2. Ciascuna Parte prepara, comunica e mantiene la sequenza di contributi determinati a livello nazionale che intende conseguire. Le Parti perseguono misure nazionali di mitigazione, al fine di raggiungere gli obiettivi dei contributi anzidetti. 3. Ciascun contributo determinato a livello nazionale di una Parte rappresenta una progressione rispetto al contributo determinato a livello nazionale precedente, e rispecchia la più alta ambizione possibile, che rifletta le proprie responsabilità comuni ma differenziate e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali. 4. Le Parti che sono paesi sviluppati continuano a svolgere un ruolo guida, prefissando obiettivi assoluti di riduzione delle emissioni che coprono tutti i settori dell’economia. Le Parti che sono paesi in via di sviluppo continuano a migliorare i loro sforzi di mitigazione, e sono incoraggiate a intraprendere, con il passare del tempo, obiettivi di riduzione o limitazione delle emissioni che coprono tutti i settori dell’economia, alla luce delle diverse circostanze nazionali. 5. Le Parti che sono paesi in via di sviluppo ricevono sostegno per l’attuazione del presente Articolo, conformemente con gli Articoli 9, 10 e 11, riconoscendo che un maggior supporto alle Parti che sono paesi in via di sviluppo permetterà che le loro azioni siano maggiormente ambiziose. 6. I paesi meno sviluppati e i Piccoli Stati insulari in via di sviluppo possono preparare e comunicare strategie, piani e azioni per lo sviluppo di basse emissioni di gas ad effetto serra che riflettano le loro speciali circostanze.[...]”.
L’art. 9 dell’Accordo così recita sul punto: “1. Le Parti che sono paesi sviluppati forniscono risorse finanziarie per assistere le Parti che sono paesi in via di sviluppo per quanto riguarda sia la mitigazione che l’adattamento, continuando ad adempiere agli obblighi ad essi incombenti in virtù della convenzione. [...]”.
L’art. 10 dell’Accordo così recita sul punto: “1. Le Parti condividono una visione a lungo termine sull’importanza di realizzare appieno lo sviluppo e il trasferimento delle tecnologie al fine di migliorare la resilienza ai cambiamenti climatici e ridurre le emissioni di gas a effetto serra. 2. Le Parti, notando l’importanza della tecnologia per l’attuazione delle azioni di mitigazione e adattamento in virtù del presente accordo, e riconoscendo gli sforzi compiuti per l’utilizzo e la diffusione delle tecnologie esistenti, rafforzano le attività di cooperazione in materia di sviluppo e trasferimento delle tecnologie. [...]”.
 
Note bibliografiche:
1 La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul Clima venne aperta alla sottoscrizione nell’ambito della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 ed entrò in vigore nel 1994. I Paesi firmatari dell’UNFCCC si impegnavano a «stabilizzare (…) le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico» (art. 2). L’obiettivo fondamentale era quello di ridurre entro il 2000 le emissioni di gas a effetto serra, stabilizzandole ai livelli del 1990. Tale risultato doveva essere raggiunto, secondo le disposizioni della Convenzione, in «uno spazio di tempo tale da permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente al cambiamento climatico, tale da assicurare che la produzione alimentare non sia messa a rischio e tale da fare in modo che lo sviluppo economico proceda in maniera sostenibile». Originariamente l’accordo non era legalmente vincolante, in quanto si limitava a riconoscere responsabilità comuni ma differenziate (principio cardine della convenzione è la responsabilità comune ma differenziata tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo), e non prevedeva limiti obbligatori, né verifiche sull’operato degli Stati. Contemplava comunque la possibilità di aggiornamenti successivi (c.d. protocolli) che avrebbero imposto limiti obbligatori per le emissioni. I Paesi aderenti si sono riuniti annualmente nella Conferenza delle Parti (COP) per valutare gli sviluppi compiuti nell’affrontare il problema.
2 Il principale gas a effetto serra è il vapore acqueo, H2O, responsabile per circa due terzi dell’effetto serra naturale.
3 Si tratta del meccanismo che contribuisce al mantenimento della temperatura terrestre entro soglie adeguate alla vita del pianeta. L’aumento di concentrazione di CO2 in atmosfera, causato da attività antropiche (industria, trasporti, riscaldamento, agricoltura e allevamento) che richiedono l’ossidazione di sostanze contenenti carbonio, accentua l’effetto serra e provoca un innalzamento della temperatura della superficie terrestre, con danni ambientali difficilmente controllabili.
4 Secondo il quinto rapporto dell’IPCC (Fifth Assessment Report), le concentrazioni atmosferiche di anidrite carbonica, metano e protossido di azoto sono ai livelli più elevati rispetto agli ultimi ottocentomila anni. In particolare, le concentrazionidi CO2 sono aumentate ad oggi del 40 per cento rispetto ai livelli pre-industriali, principalmente a causa delle emissioni legate all’impiego dei combustibili fossili e, secondariamente, per le emissioni legate al cambiamento d’uso del suolo. Continuando ad emettere ai trend attuali, gli scenari indicano un aumento della temperatura media terrestre a fine secolo di 4 o 5° C rispetto ai valori attuali. Inoltre, secondo i dati pubblicati dall’americano National Oceanic and Atmospheric Administration, il 2015 è risultato l’anno più caldo degli ultimi anni (dicembre è stato il mese più caldo dell’intera serie di dati in possesso dell’organismo, ossia degli ultimi 136 anni). Comprendendo il 2015, quindici dei sedici anni più caldi mai registrati si sono verificati nel corso del XXI secolo. Cfr. MATTM-ENEA-ISPRA, Parigi e oltre. Gli impegni nazionali sul cambiamento climatico al 2030, Spoleto, 2016, passim.
5 Gas «climalteranti» sono i gas ad effetto serra influenzati direttamente dall’azione dell’uomo. Quindi: l’anidride carbonica, il protossido di azoto, il metano, l’esafluoruro di zolfo e gli alocarburi. Si veda G. SILVESTRINI, 2 C, Milano, 2015, 232.
6 Orbene, l’adozione di un approccio fondato sull’impianto classico della responsabilità internazionale degli Stati si scontra con ostacoli afferenti all’elemento sia oggettivo sia soggettivo dell’illecito. In primo luogo, nell’accertamento della violazione del diritto internazionale, laddove si prescindesse dalla disciplina iscritta nell’alveo della Convenzione quadro sul cambiamento climatico, si profilerebbero quantomeno due quesiti, pertinente l’uno all’esistenza di più generali regole a tutela dell’ambiente applicabili anche al cambiamento climatico, l’altro alla vigenza di un ipotetico divieto avente ad oggetto il cambiamento climatico ex se. Peraltro, dette perplessità ne genererebbero ulteriori rispetto alla regola tempus regit actum, a causa dell’incertezza relativa alla collocazione temporale sia delle eventuali regole internazionale rilevanti, sia del fenomeno del cambiamento climatico. In secondo luogo, quanto all’imputazione statale, particolari difficoltà si porrebbero con riferimento a un’eventuale norma interdicente il cambiamento climatico come tale, giacché sarebbe arduo ascrivere un fenomeno su vasta scala quale il cambiamento climatico a particolari Stati.
  7 In inglese vi è una distinzione tra State Responsibility e State Liability. È la liability che rileva particolarmente ai nostri fini, dal momento che essa si riferisce ad atti ed attività leciti (injurious consequences arising out of acts not prohibited by international law) e che tuttavia producono danni. La State Responsibility invece regola la responsabilità degli Stati per atti illeciti e/o illegali (wrongful acts).Vedi, per il primo tipo di responsabilità: International Law Commission Draft articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, with commentaries, Yearbook of the International Law Commission, 2001, vol. II, Part Two; per il secondo: International Law Commission International liability for injurious consequences arising out of acts not prohibited by international law.Yearbook of the International Law Commission, 1996, vol. II, Part Two, Annex I and risoluzione UNGA51/160.
  8 Magraw D. (1990) Legal Treatment of Developing Countries: Differential, Contextual and Absolute Norms (1990) I Colorado Journal of International Environmental Law and Policy 69.
9 I c.d. «contributi determinati a livello nazionale» (INDCs -Intended Nationally Determined Contributions).
10 L’organismo scientifico deputato, nell’ambito delle Nazioni Unite, a valutare lo stato delle conoscenze sul clima e sui cam-biamenti climatici, individuare le conseguenze del riscaldamento globale sull’ambiente e prospettare ai decisori politici possibili misure e risposte strategiche è l’IPCC - Intergovernmental Panel on Climate Change, istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dall’United Environment Program (UNEP).
Nel 1990, il primo rapporto dell’IPCC ha formulato solo ipotesi sui possibili effetti dell’attività dell’uomo sul clima, sulla base delle quali, in applicazione del principio di precauzione, è stata adottata la Convenzione quadro sul clima di Rio de Janeiro del 1992. Con il quarto rapporto dell’IPCC del 2007 si è giunti alla conclusione che il cambiamento climatico è dovuto all’azione dell’uomo con un grado di probabilità tra il 90 ed il 99 per cento e si è indicata la necessità di contenere l’aumento della temperatura alla fine del secolo entro i 2° C rispetto ai livelli preindustriali. Il quinto rapporto dell’IPCC afferma in maniera incontrovertibile che il cambiamento climatico è in atto ed è fortemente legato all’influenza antropica sul sistema climatico. Sul tema la letteratura è vastissima. Si vedano, per un approfondimento: MATTM - ENEA - ISPRA, Parigi e oltre, cit.; A. PASINI (a cura di), Kyoto e dintorni. I cambiamenti climatici come problema globale, Milano, 2007; M. MONTINI, Il cambiamento climatico e il Protocollo di Kyoto, in Quaderni della Rivista giuridica dell’ambiente, Speciale 20 Anni, 2006, 21 e ss.; S. NESPOR - A. L. DE CESARIS, Le lunghe estati calde. Il cambiamento climatico e il Protocollo di Kyoto, Bologna, 2004.
11 La Decisione, in particolare, prevede la revisione dei contributi volontari degli Stati e della loro reale efficacia a partire al 2018, in quanto «viene notato con preoccupazione che i livelli di emissione di gas serra complessivamente valutati al 2025 e 2030, risultanti dai contributi volontari dichiarati dagli Stati, non permettono di stare in linea con la traiettoria di temperatura dei 2 gradi» (senza una revisione e aumento degli impegni volontari presi ad oggi si stima un aumento di temperatura da 2,7 a 3°C -UNEP, Emission Gap Report 2015). La Decisione istituisce inoltre un apposito organismo con il compito di assistere i Paesi aderenti nella fase antecedente all’entrata in vigore dell’Accordo ed invita l’IPCC a preparare per il 2018 un rapporto speciale sugli impatti e sulla traiettoria di emissioni relative ad un incremento di temperatura di 1,5 gradi. Sono altresì previsti incontri tra le Parti nel 2018 per un dialogo costruttivo sull’efficacia dei contributi volontari assunti e per verificare i tempi per il raggiungimento del picco delle emissioni di gas serra.
12 Il Protocollo di Kyoto, adottato nel 1997, ha previsto obblighi vincolanti di contenimento delle emissioni di gas serra a carico dei 37 paesi industrializzati. Nel 1994, anno successivo all’entrata in vigore della Convenzione quadro, si è svolta a Berlino la prima Conferenza delle Parti (COP-1), durante la quale venne stabilito di dare avvio ad un nuovo processo negoziale per elaborare una bozza di trattato, al fine di rendere più stringenti gli obblighi di riduzione delle emissioni a carico dei Paesi (Allegato 1, c.d. Mandato di Berlino). Il Berlin Mandate stabiliva espressamente, in attuazione del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, che non sarebbero stati imposti obblighi di riduzione o oneri procedurali aggiuntivi a carico dei Paesi in via di sviluppo. Il Protocollo integrativo della Convenzione quadro, presentato durante la terza Conferenza delle Parti (COP-3) di Kyoto, prevede la riduzione media delle emissioni del 5,8 per centorispetto al livello raggiunto nel 1990, nel corso del primo periodo di impegno, dal 2008 al 2012 (il secondo periodo di impegno, relativo al 2013-2020, è stato definito nel corso della COP-17 tenutasi a Durban nel 2011) e mette a punto tre strumenti innovativi, i c.d. meccanismi flessibili, per aiutare i Paesi industrializzati a raggiungere i propri obiettivi di riduzione in modo economico (Emission Trading, Joint Implemention, Clean Development Mechanism). Il Protocollo è entrato in vigore il 16 febbraio 2005, novanta giorni dopo che, con la ratifica della Russia, è stata raggiunta la «doppia soglia» prevista dal Trattato. Ad oggi, le Parti del Protocollo sono 192 (191 Stati e l’UE), rappresentanti il 63,7 per cento delle emissioni totali dei Paesi industrializzati. Gli Stati Uniti, dopo aver firmato il Protocollo di Kyoto, non lo hanno ratificato - per decisione dell’allora Presidente G.W Bush - e il Canada il 13 dicembre 2011, in occasione della COP-17, ha dichiarato di non voler più aderire al Trattato. L’Unione europea si è impegnata a ridurre le emissioni dell’8 per cento rispetto ai livelli del 1990, nel quinquennio 2008-2012. Ad essa è riconosciuta, dall’art. 4 del Protocollo, la facoltà di ridistribuire tra i suoi Stati membri gli obiettivi ad essa imposti, purché rimanga invariato il risultato finale di riduzione globale delle emissioni: ogni Stato membro contribuirà in diversa misura, ma la somma totale delle emissioni antropiche all’interno della c.d. bubble europea dovrà essere quello previsto. Il Burden Sharing Agreement, l’accordo politico sulla ripartizione degli oneri, prevede per l’Italia un impegno di riduzione delle emissioni pari al 6,5 per cento. In dottrina, si vedano il fascicolo n. 1 del 2005 della Rivista giuridica dell’ambiente, interamente dedicato al protocollo di Kyoto; F.RANGHIERI (a cura di), Sostenibilità e cambiamenti climatici, Milano, 2005; S. ALAIMO, Protocollo di Kyoto, Firenze, 2005.
13 I Paesi elencati nell’allegato 1 della Convenzione di Rio.
14 Il 2 agosto 2016 la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha pubblicato la relazione finale delle parti del protocollo di Kyoto per il primo periodo di impegno («CP 1»), corrispondente agli anni 2008-2012. Durante questo periodo le emissioni dell’UE sono state di 23,5 Gt CO2 eq. a fronte di un obiettivo cumulativo di 26,7, Gt CO2 eq.; quindi, l’obiettivo è stato raggiunto con un margine del 12 per cento.
15 I diritti alla salute, all’eguaglianza di genere, all’accrescimento dei diritti delle donne, all’equità intergenerazionale e i diritti delle popolazioni indigene, delle comunità locali, dei migranti, dei minori, delle persone con disabilità e dei soggetti in situazioni di vulnerabilità allo sviluppo. Alcuni diritti richiamati nel Preambolo compaiono per la prima volta in un documento in materia di clima e lotta al cambiamento climatico.
 
 

Avv. Giardina Antonio Domenico Francesco

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