Si intende approfondire nel presente articolo il principio delle comuni ma differenziate responsabilità (Common but differentiated responsibilities - CBDR) che costituisce uno dei pilastri del diritto internazionale ambientale e dello sviluppo sostenibile. Si affronteranno i temi della responsabilità ambientale degli Stati nel Diritto Internazionale, delle responsabilità comuni e differenziate, l'applicazione di tali principi nella Convenzione Quadro sul Clima.
 
§ 1. Premessa.
Il principio di comuni ma differenziate responsabilità (Common but differentiated responsibilities - CBDR) è uno dei pilastri del diritto internazionale ambientale e dello sviluppo sostenibile. È emerso inizialmente ed è stato esplicitamente formulato nel contesto della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, il cosiddetto Earth Summit. Il principio trova le sue origini in considerazioni e principi generali di equità del diritto internazionale. In particolare, il principio di comuni ma differenziate responsabilità informa la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC – United Nations Framework Convention on Climate Change)1, il Protocollo di Kyoto, nonché costituisce uno dei principi guida della politica climatica su cui si fonda il nuovo accordo internazionale che ha sostituito il Protocollo di Kyoto, vale a dire l’Accordo di Parigi.
La presenza di gas ad effetto serra nell’atmosfera2, condizione fisiologica che provoca il c.d. effetto serra naturale 3, ha subìto negli ultimi decenni gravi alterazioni. Secondo la comunità scientifica, il mutamento climatico è causato dall’aumento della concentrazione di gas a effetto serra, imputabile principalmente alle attività antropiche legate all’uso di combustibili fossili e dei suoli negli ultimi due secoli4. Il controllo delle emissioni climalteranti5 è problemache richiede soluzioni globali.
Alla base del principio, consacrato come detto dalla Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 su ambiente e sviluppo, è il riconoscimento della diversa intensità con cui gli Stati contribuiscono al deterioramento ambientale: specularmente, ancorché la tutela dell’ambiente rappresenti un obiettivo comune della Comunità internazionale, gli Stati sviluppati sarebbero onerati da una più grave responsabilità nel perseguimento dello sviluppo sostenibile. Riferito al cambiamento climatico, il principio in discorso non solo giustificherebbe i più stringenti obblighi a carico degli Stati sviluppati, ma imporrebbe a essi anche doveri di ausilio a favore dei Paesi in via di sviluppo. Così, sembra che gli Stati siano ricorsi al principio delle responsabilità comuni ma differenziate per aggirare i problemi di applicazione del regime classico di responsabilità6 al fenomeno del cambiamento climatico: i Paesi genericamente ritenuti responsabili per il cambiamento climatico sarebbero gravati da obblighi nei confronti degli Stati in via di sviluppo, che de facto gioverebbero di una sorta di riparazione, pur in mancanza dell’accertamento di particolari illeciti internazionali imputabili a Stati specifici. 
 
§ 2. Introduzione: responsabilità ambientale degli Stati nel Diritto Internazionale.
In generale, la responsabilità ambientale degli Stati è un principio generale del diritto internazionale7. Il Principio 2 della Dichiarazione di Rio stabilisce che: “Conformemente alla Carta delle Nazioni Unite ed ai principi del diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo, ed hanno il dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri stati o di aree situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale”. Questo principio di responsabilità per atti che causino danni transfrontalieri trova le sue origini nel Trail Smelter Arbitration, che chiarì come il principio di sovranità incontra un limite nei diritti di un altro Stato sovrano, dal momento che “nessuno Stato ha il diritto di usare o di permettere l’utilizzo del proprio territorio in maniera tale che possa causare danni nel o al territorio di un altro Stato, o a beni o persone di questo”. La Corte Internazionale di Giustizia ha poi riaffermato che “l’esistenza di un generale obbligo in capo agli Stati di assicurare che attività che avvengano nella loro giurisdizione e sotto il loro controllo rispettino l’ambiente di altri Stati e di aree che siano al di fuori di ogni giurisdizione statale” sia oramai parte del corpus di legislazione ambientale internazionale.
Va rilevato però che questo tipo di responsabilità, che esprime una ragionevole commisurazione di diritti e obblighi degli Stati in materia di responsabilità, intende proteggere uno Stato da danni alla sua proprietà (territorio) causati da un altro Stato (o da attività sotto il controllo di un altro Stato).
Questo profilo di responsabilità non regola la protezione di risorse comuni globali, o che comunque non ricadano sotto alcuna giurisdizione esclusiva Statale, come ad esempio il clima. A tal fine va considerata una responsabilità “condivisa” o comune, espressione di quello che Drumble chiama uno “shared compact”, e che riflette sottostanti obblighi di cooperazione, buon vicinato e solidarietà con riguardo all'accesso, gestione e protezione di risorse comuni.
 
§ 3. Responsabilità comuni e differenziate.
Il principio numero 7 della Dichiarazione di Rio fornisce la prima formulazione del principio di comuni ma differenziate responsabilità, affermando che:
“[...] In considerazione del differente contributo al degrado ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui dispongono”.
 
§ 4. Origine della responsabilità comune.
Il principio ha due matrici.
La prima è rappresentata dalla responsabilità comune, e trova i suoi antecedenti nel principio di comune patrimonio dell’umanità. Questa matrice comune è stata materialmente espressa in diversi Trattati Internazionali, in materie quali la protezione dei tonni e altre specie ittiche, lo Spazio e la Luna, il patrimonio culturale e naturale, uccelli acquatici, il fondo e il sottosuolo del mare internazionale. Più recentemente strumenti giuridici internazionali hanno qualificato come comune interesse dell’umanità il clima terrestre e la diversità biologica.
In particolare, le parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, nel preambolo, si dichiarano “consapevoli che i cambiamenti di clima del pianeta e i relativi effetti negativi costituiscono un motivo di preoccupazione per il genere umano”. La comune responsabilità riflette il dovere degli Stati di condividere equamente l’onere della protezione ambientale per le risorse globali comuni, i cosiddetti global commons. Questo interesse giuridico – e socio-ambientale – in comune è una fondante spinta alla cooperazione nella gestione e protezione di risorse globali quali l’atmosfera e il ciclo del carbonio.
 
§ 5. Responsabilità differenziata.
La seconda matrice esprime una duplice preoccupazione. In primo luogo è espressione di una volontà di commisurare la partecipazione alla protezione di tali risorse comuni alla specifiche condizioni socio-economiche e alle capacità finanziarie e infrastrutturali dei singoli paesi, così da raggiungere una sostanziale equità della distribuzione dei costi che bilanci i criteri formali di eguaglianza tra Stati sovrani. Questo aspetto risale già al principio di Trattamento Differenziato, la cui lunga storia è fatta risalire almeno al Trattato di Versailles del 1919 e a Trattati navali successivi alla Prima Guerra Mondiale. Il Trattamento Differenziato riflette la necessità di considerare condizioni materiali differenti attraverso la “gradazione” degli obblighi assunti dalle varie Parti, o attraverso la contestualizzazione di tali obblighi. Magraw8 distingue a questo proposito tre tipologie di norme: norme assolute, che si applicano egualmente a tutte le Parti; norme contestuali, che si applicano ad ogni Parte tenendo conto delle speciali circostanze di ogni Parte, quali condizioni socio-economiche, capacità tecnico-finanziarie etc.; norme differenziate, che operano una differenziazione esplicita, ad esempio attraverso differenti orizzonti temporali entro i quali procedere all’adempimento delle obbligazioni stipulate.
Il principio del Trattamento Differenziato è anche riconosciuto nell’ambito del Diritto Internazionale Economico, e in particolare nella normativa dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con il nome di “trattamento speciale e differenziato”. Tale normativa ha il fine di consentire ai paesi in via di sviluppo (PVS) di adattarsi alla liberalizzazione del commercio, attraverso previsioni di assistenza tecnica, termini temporali di adempimento elastici, flessibilità nell'adempimento etc.
Il punto cruciale però, e di novità, del principio di comuni ma differenziate responsabilità risiede nella considerazione esplicita delle responsabilità storiche dei singoli paesi alla determinazione di specifici danni ambientali – e in particolare per quanto riguarda i contributi9 in termini di emissioni di gas serra. Ed è proprio questa seconda dimensione, e cioè il nesso che il principio di comuni ma differenziate responsabilità stabilisce tra il passato sfruttamento economico dei commons globali e la responsabilità di intraprendere attività tese a rimediare o mitigare le conseguenze di tale sfruttamento, che si pone come particolarmente importante.
Prima di Rio tali disparità materiali e socio-economiche venivano integrate in accordi internazionali, come brevemente menzionato, attraverso il principio del trattamento differenziato. Il principio del Polluter Pays (“chi inquina paga”) dall’altra parte, assegna la responsabilità di sopportare i costi di rigenerazione e riparazione di danni ambientali a colui che inquina. La novità introdotta dal principio di comuni ma differenziate responsabilità sta quindi proprio nell’emergenza della dimensione storica, che introduce un elemento di correzione a fondamento di una equa redistribuzione delle responsabilità. In questo senso va oltre sia al principio del trattamento differenziato che a quello del principio del Polluter Pays. In sintesi, il principio di comuni ma differenziate responsabilità esprime la necessità di valutare la responsabilità in una dimensione storica ed in funzione della cooperazione internazionale, della solidarietà e dell’equità.
 
§ 6. Equità e narrative del consumo.
Le problematiche etiche poste dai cambiamenti climatici sono molte, e complesse, sia in senso geografico che temporale. L’equità intragenerazionale deve risolvere i problemi legati alla diseguale distribuzione dei costi del consumo dei cosiddetti “servizi ambientali”, nonché dei benefici di tale consumo nel presente. Nel caso dei cambiamenti climatici, tali costi sono rappresentati dai potenziali effetti dannosi, mentre i benefici sono l’accumulazione di ricchezza avvenuto attraverso quei processi economici e industriali che hanno generato il problema per via delle emissioni climalteranti conseguenze di tali processi. E come ampiamente mostrato dai rapporti dell’IPCC10 (2001 e 2007), i danni da cambiamenti climatici saranno distribuiti principalmente nelle aree geografiche che meno (o nulla) hanno contribuito al surriscaldamento globale. Già Kofi Annan, durante la COP12 tenutasi a Nairobi, denunciava questa asimmetria sociale e geografica tra cause ed effetti dei cambiamenti climatici, e reiterava vigorosamente l’appello ai paesi industrializzati a dimostrare il ruolo di leadership da loro assunto nel regime climatico attraverso concrete azioni volte a ridurre gli impatti dei cambiamenti climatici, ed a fornire appropriato supporto economico ai paesi in via di sviluppo per l’adattamento a quei cambiamenti oramai inevitabili.
In una dimensione temporalmente dinamica invece, l’equità intergenerazionale richiede che gli interessi delle generazioni future siano sufficientemente considerati nei processi decisionali di oggi.
Questo elemento di equità (e sostenibilità) intergenerazionale, e la considerazione storica delle emissioni dei gas serra e della conseguente alterazione del budget energetico della Terra sono direttamente legate alle modalità di produzione e consumo del mondo industrializzato. Ed è la questione del consumo che si pone come centrale nel quadro della distribuzione della responsabilità per i cambiamenti climatici.
Dal momento che i cambiamenti climatici sono principalmente il risultato dell’accumulazione di gas serra nell’atmosfera in conseguenza di attività industriali, la responsabilità per tali emissioni può essere “seguita” nel tempo attraverso una doppia narrativa del consumo. In primo luogo il consumo è direttamente collegato alla produzione di beni e servizi consumati da individui e comunità, e che determina un “impronta” ecologica ben specifica e una serie di conseguenze in termini di uso del territorio, consumo delle risorse naturali ed emissioni di gas serra. In secondo luogo, e parallelamente, vi è un consumo della capacità di assorbimento della atmosfera delle emissioni climalteranti. Questa seconda narrativa corrisponde ad attività di consumo diretto dei servizi ecologici forniti dal ciclo del carbonio terrestre, e particolarmente la capacità di assorbimento e circolazione del carbonio immesso nell’atmosfera dalle attività umane.
Entrambe queste narrative del consumo mostrano una sproporzione enorme tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, sproporzione che si vuole eliminare attraverso differenziate responsabilità, in modo tale che il diritto allo sviluppo dei paesi in via di sviluppo non entri in conflitto (o non in maniera troppo decisa) con la necessità di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, e che la responsabilità storica sia giustamente considerata nella definizione degli obblighi di contribuzione alla risoluzione del problema del surriscaldamento globale.
Il riferimento a dei dati renderà più chiara questa disparità. Tra il 1900 e il 1990 gli Stati Uniti hanno contributo il 30% dell’accumulazione dei gas serra nell’atmosfera (e quindi del surriscaldamento del clima), l’Europa il 27%, la Cina e l’India (insieme ad altri paesi Asiatici in rapido sviluppo) il 12%, l’Africa e il Sud America poco più del 6%. Queste differenze sono già molto marcate, ma esaminando i dati pro capite, il divario diventa un abisso. Le emissioni pro capite negli USA erano, nel 2000, circa 20.2 tonnellate di CO2 a persona, 16.9 in Canada, 10.6 in Russia e 9.5 nel Regno Unito. Nei paesi in via di sviluppo queste emissioni erano di 3.4 tonnellate di CO2 a persona in Messico, 2.6 in Cina, 1.9 in Brasile, 1.0 in India, 0.3 in Kenya e 0.1 in Burkina Faso.
Ora ci sembra che le differenti responsabilità abbiano trovato una prospettiva significativa, soprattutto ai fini di una differenziazione degli obblighi di riduzione delle emissioni, e dei relativi costi di implementazione.
Eppure c’è dell’altro. Studi recenti hanno posto l’attenzione sul nesso consumo-emissioni da un altro angolo visuale. Attraverso l’analisi del cosiddetto carbon leakage e della displaced pollution (ossia fenomeni di “emigrazione” dell’inquinamento da un paese all’altro, in funzione di minori costi del lavoro e di una regolamentazione ambientale meno ferrea), questi studi mostrano come sia importante guardare al “consumo finale” per allocare la responsabilità delle emissioni, e non solo all’aspetto territoriale della produzione. Infatti le emissioni “incorporate” nel commercio internazionale rappresentano circa il 20% delle emissioni globali, e da questo punto di vista i paesi industrializzati sono “importatori di emissioni”, mentre i paesi in via di sviluppo le esportano: fino al 23% delle emissioni cinesi sono determinate da produzione finalizzata all’esportazione, e i cui prodotti sono consumati altrove (e principalmente negli Stati Uniti e in Europa).
 
§ 7. Applicazione del principio nella Convenzione Quadro sul Clima.
Il principio di comuni ma differenziate responsabilità è diventato un punto di riferimento etico e politico, prima ancora che giuridico, nel quadro del diritto internazionale ambientale, e del diritto internazionale dello sviluppo sostenibile. Il suo status giuridico però è incerto e fonte di discussioni dottrinarie, almeno al di fuori della sua formulazione positiva espressa nella UNFCCC”. Nel diritto positivo internazionale l’aspetto della differenziazione è espresso in una serie di Multilateral Environmental Agreements. Questa differenziazione ha variamente preso la forma di differenti standards, obblighi commisurati a capacità materiale/economiche, matrici temporali di compliance diversificate etc.
È solo nell’ambito del regime climatico però che all’elemento centrale del principio – la dimensione di responsabilità storica - viene data concreta espressione normativa. Il preambolo della UNFCCC riconosce che “la portata mondiale dei cambiamenti climatici richiede la più vasta cooperazione possibile di tutti i Paesi e la loro partecipazione ad un’azione internazionale adeguata ed efficace in rapporto alle loro responsabilità comuni ma differenziate, alle rispettive capacità e alle loro condizioni economiche e sociali”. L’articolo 3(1) della stessa Convezione stabilisce che “Nello svolgimento delle azioni intese a raggiungere l’obiettivo della Convenzione e ad adempierne le disposizioni, le Parti devono” inter alia “proteggere il sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni, su una base di equità e in rapporto alle loro comuni ma differenziate responsabilità e alle rispettive capacità. Pertanto i Paesi sviluppati che sono Parti alla Convenzione, devono prendere l’iniziativa nella lotta contro i cambiamenti climatici e i relativi effetti negativi”. Ma v’è di più. Ogni Parte della Convenzione deve considerare la lista di obblighi di cui all’articolo 4 “Tenendo conto delle loro responsabilità comuni, ma differenziate e delle loro specifiche priorità nazionali e regionali di sviluppo, dei loro obiettivi e delle diverse circostanze”.
 
§ 7.1. Applicazione del principio nel Protocollo di Kyoto.
Il Protocollo di Kyoto è stato siglato l’11 dicembre 1997 durante la Conferenza delle Parti di Kyoto (COP-3), ma è entrato in vigore solo il 16 febbraio 2005 grazie alla ratifica da parte della Russia (avvenuta nel novembre 2004). Per poter entrare in vigore era necessario infatti che venisse ratificato da non meno di 55 Nazioni che rappresentassero il 55 per cento delle emissioni serra globali di origine antropica. Prevedendo per la prima volta obiettivi di riduzione delle emissioni per i Paesi industrializzati, si configura come il primo passo per l’attuazione dell’obiettivo della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici.
Il Protocollo di Kyoto ripropone il principio come elemento fondante della sua struttura etica. All’articolo 10 infatti il Protocollo stabilisce che le Parti devono tener conto “delle loro comuni ma differenziate responsabilità e delle loro specifiche priorità di sviluppo nazionale e regionale, dei loro obiettivi e delle loro circostanze”, per poi elencare obiettivi di cooperazione e di politiche climatiche nazionali e regionali.
Più nel dettaglio, la Convenzione sul Clima, laddove stabilisce gli obblighi per le parti, opera una distinzione tra obblighi comuni e obblighi differenziati. All’articolo 4 infatti, dove sono elaborati gli obblighi delle parti, mentre il paragrafo 1 propone una lista di obbligazioni comuni, il paragrafo 2 afferma che le “parti industrializzate e altre parti incluse nell’Allegato I si obbligano specificatamente”, per poi fare un elenco di tali obblighi specifici. Questo elenco include, tra l’altro, l’adozione di “politiche nazionali” e “corrispondenti provvedimenti per mitigare i cambiamenti climatici, limitando le emissioni causate dall’uomo di gas ad effetto serra e proteggendo e incrementando i suoi pozzi e serbatoi di gas ad effetto serra”; richiamando il ruolo di leadership poi assegnato ai paesi sviluppati, il sottoparagrafo b prosegue stabilendo obblighi di comunicare “entro sei mesi dall’entrata in vigore della Convenzione nei suoi confronti e in seguito periodicamente, informazioni particolareggiate sulle sue politiche e misure di cui al precedente sottoparagrafo”.
Per quanto riguarda poi gli obblighi quantificati di riduzione delle emissioni stabiliti nel Protocollo di Kyoto, la differenziazione segue la logica dell’Allegato I/Non-Allegato I: sono solamente le Parti incluse nell’Allegato I della Convenzione che hanno obblighi quantificati di riduzione delle emissioni di gas serra, e la cui specifica quantità, espressa in percentuale rispetto alle emissioni di ciascun paese nel 1990, è specificata nell’Allegato B del Protocollo di Kyoto. In particolare, le parti “incluse nell’Allegato I assicureranno, individualmente o congiuntamente, che le loro emissioni antropiche aggregate, espresse in equivalente–biossido di carbonio, dei gas ad effetto serra indicati nell’Allegato A, non superino le quantità che sono loro attribuite, calcolate in funzione degli impegni assunti sulle limitazioni quantificate e riduzioni specificate nell’Allegato B e in conformità alle disposizioni del presente articolo, al fine di ridurre il totale delle emissioni di tali gas almeno del 5% rispetto ai livelli del 1990, nel periodo di adempimento 2008–2012”. Altri obblighi che rispondono ad una logica di differenziazione si ritrovano in tutto il Protocollo. In particolare si possono menzionare l’obbligo di “aver ottenuto nel 2005, nell’adempimento degli impegni assunti” (articolo 3.2) e dovranno preparare “un sistema nazionale per la stima delle emissioni antropiche dalle fonti e dall’assorbimento dei pozzi di tutti i gas ad effetto serra non inclusi nel Protocollo di Montreal” (articolo 5.1).
Ulteriori meccanismi funzionali all’applicazione del principio di comuni ma differenziate responsabilità nella politica di cooperazione internazionale per la mitigazione dei cambiamenti climatici e dei loro effetti dannosi sono gli impegni stabiliti sia dalla Convenzione che dal Protocollo in materia di trasferimento di tecnologia (articoli 10 e 11) e di assistenza finanziaria (articolo 11) per la mitigazione e l’adattamento dei paesi in via di sviluppo, attraverso la Global Environmental Facility (GEF). Il GEF gestisce due fondi sotto l’egida della Convenzione: lo Special Climate Change Fund e il Least Developed Countries Fund; sotto l’egida del Protocollo di Kyoto, il GEF gestisce invece il Kyoto Protocol Adaptation Fund. Questi meccanismi hanno tutti la finalità di attuare il principio in pratica, operando una redistribuzione degli oneri finanziari implicati in attività di mitigazione dei, e adattamento ai, cambiamenti climatici.
Infine, nel preambolo della Convenzione, si riconosce che le parti sono “consapevoli che la portata mondiale dei cambiamenti climatici richiede la più vasta cooperazione possibile di tutti i Paesi e la loro partecipazione ad un’azione internazionale adeguata ed efficace in rapporto alle loro responsabilità comuni ma differenziate, alle rispettive capacità e alle loro condizioni economiche e sociali”, mentre il ruolo di leadership è richiamato nell’articolo 3.1: “i Paesi sviluppati che sono Parti alla Convenzione, devono prendere l’iniziativa nella lotta contro i cambiamenti climatici e i relativi effetti negativi”.
 
§ 7.2. Applicazione del principio nell’Accordo di Parigi.
L’Accordo di Parigi (Paris Climate Agreement) sul clima, siglato il 12 dicembre 2015 nell’ambito della ventunesima Conferenza delle Parti della UNFCCC (COP-21), rappresenta un’intesa fondata sulla consapevolezza, finalmente diffusa, che il pianeta è minacciato dal cambiamento climatico e dal riscaldamento globale. Il Paris Climate Agreement è entrato in vigore il 4 novembre 2016, a meno di un anno dalla sua sottoscrizione.
Si compone di due documenti: la Decisione (Decision) e l’Accordo di Parigi (Paris Agreement), che formalmente costituisce un allegato della prima. Si tratta di atti separati, con diversa efficacia giuridica: solo l’Accordo è atto vincolante per le parti e in quanto tale è soggetto alla ratifica degli Stati contraenti. La Decisione, che pur essendo uno strumento giuridico adottato in esecuzione della Convenzione non ha carattere vincolante, prevede le iniziative che gli Stati dovranno porre in essere prima del 2020, al fine di prepararsi all’entrata in vigore dell’Accordo e migliorare ed implementare le proprie iniziative programmatiche11.
L’accordo supera l’impianto del Protocollo di Kyoto12 e ne capovolge la strategia. Non più obiettivi vincolanti imposti ai soli Paesi industrializzati13 – obiettivi da subito giudicati insufficienti e comunque (con l’eccezione dell’Unione europea14) disattesi – ma una strategia fondata sulla partecipazione degli Stati tutti, in ragione di una responsabilità comune ma differenziata, con contributi – differenziati, appunto – determinati a livello nazionale da ciascuno Stato con appositi piani. Il rispetto degli impegni non è assistito da un apparato sanzionatorio, ma favorito da regole di trasparenza e di informazione e da strumenti di assistenza tecnica e di cooperazione. L’obiettivo è mantenere l’aumento della temperatura terrestre molto al disotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali, con l’intento di contenerlo entro 1,5°C.
L’Accordo di Parigi consacra il superamento di tale impostazione – superamento già in nuce nell’accordo di Copenhagen (COP-15) del 2007 – con il ritorno all’originaria accezione di responsabilità comune a tutti gli Stati, sia pure differenziata in base alle diverse capacità ed esigenze di sviluppo sostenibile.
Il Preambolo riconduce l’esigenza di una risposta efficace all’urgente minaccia dei cambiamenti climatici che si basi sulle migliori conoscenze scientifiche disponibili, nonché nell’ambito della tutela e promozione dei diritti umani15 ed afferma l’importanza dell’istruzione, della sensibilizzazione e della partecipazione del pubblico, dell’accesso all’informazione nonché della cooperazione a tutti i livelli sui temi affrontati. Altresì, il Preambololo:
ribadisce il principio dell’equità e delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali;
riconosce le esigenze specifiche e le circostanze speciali delle parti che sono paesi in via di sviluppo, in particolare quelle che sono particolarmente vulnerabili agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, e ciò anche per quanto riguarda i finanziamenti ed il trasferimento di tecnologia.
L’art. 2 dell’Accordo così recita sul punto: “1. Il presente accordo, nel contribuire all’attuazione della convenzione, inclusi i suoi obiettivi, mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici, nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi volti a eliminare la povertà, in particolare: a) mantenendo l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici; b) aumentando la capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e promuovendo la resilienza climatica e lo sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra, con modalità che non minaccino la produzione alimentare; c) rendendo i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima. 2. Il presente accordo sarà attuato in modo da riflettere l’equità ed il principio delle responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali.”
L’art. 4 dell’Accordo così recita sul punto: “1. Per conseguire l’obiettivo di temperatura a lungo termine di cui all’Articolo 2, le Parti tendono a raggiungere il picco globale di emissioni di gas ad effetto serra al più presto possibile, riconoscendo che ciò impiegherà maggior tempo per le Parti che sono paesi in via di sviluppo, e ad intraprendere rapide riduzioni in seguito, in linea con le migliori conoscenze scientifiche a disposizione, così da raggiungere un equilibrio tra le fonti di emissioni antropogeniche e gli assorbimenti di gas ad effetto serra nella seconda metà del corrente secolo, su una base di equità, e nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi tesi a sradicare la povertà. 2. Ciascuna Parte prepara, comunica e mantiene la sequenza di contributi determinati a livello nazionale che intende conseguire. Le Parti perseguono misure nazionali di mitigazione, al fine di raggiungere gli obiettivi dei contributi anzidetti. 3. Ciascun contributo determinato a livello nazionale di una Parte rappresenta una progressione rispetto al contributo determinato a livello nazionale precedente, e rispecchia la più alta ambizione possibile, che rifletta le proprie responsabilità comuni ma differenziate e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali. 4. Le Parti che sono paesi sviluppati continuano a svolgere un ruolo guida, prefissando obiettivi assoluti di riduzione delle emissioni che coprono tutti i settori dell’economia. Le Parti che sono paesi in via di sviluppo continuano a migliorare i loro sforzi di mitigazione, e sono incoraggiate a intraprendere, con il passare del tempo, obiettivi di riduzione o limitazione delle emissioni che coprono tutti i settori dell’economia, alla luce delle diverse circostanze nazionali. 5. Le Parti che sono paesi in via di sviluppo ricevono sostegno per l’attuazione del presente Articolo, conformemente con gli Articoli 9, 10 e 11, riconoscendo che un maggior supporto alle Parti che sono paesi in via di sviluppo permetterà che le loro azioni siano maggiormente ambiziose. 6. I paesi meno sviluppati e i Piccoli Stati insulari in via di sviluppo possono preparare e comunicare strategie, piani e azioni per lo sviluppo di basse emissioni di gas ad effetto serra che riflettano le loro speciali circostanze.[...]”.
L’art. 9 dell’Accordo così recita sul punto: “1. Le Parti che sono paesi sviluppati forniscono risorse finanziarie per assistere le Parti che sono paesi in via di sviluppo per quanto riguarda sia la mitigazione che l’adattamento, continuando ad adempiere agli obblighi ad essi incombenti in virtù della convenzione. [...]”.
L’art. 10 dell’Accordo così recita sul punto: “1. Le Parti condividono una visione a lungo termine sull’importanza di realizzare appieno lo sviluppo e il trasferimento delle tecnologie al fine di migliorare la resilienza ai cambiamenti climatici e ridurre le emissioni di gas a effetto serra. 2. Le Parti, notando l’importanza della tecnologia per l’attuazione delle azioni di mitigazione e adattamento in virtù del presente accordo, e riconoscendo gli sforzi compiuti per l’utilizzo e la diffusione delle tecnologie esistenti, rafforzano le attività di cooperazione in materia di sviluppo e trasferimento delle tecnologie. [...]”.
 
Note bibliografiche:
1 La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul Clima venne aperta alla sottoscrizione nell’ambito della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 ed entrò in vigore nel 1994. I Paesi firmatari dell’UNFCCC si impegnavano a «stabilizzare (…) le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico» (art. 2). L’obiettivo fondamentale era quello di ridurre entro il 2000 le emissioni di gas a effetto serra, stabilizzandole ai livelli del 1990. Tale risultato doveva essere raggiunto, secondo le disposizioni della Convenzione, in «uno spazio di tempo tale da permettere agli ecosistemi di adattarsi naturalmente al cambiamento climatico, tale da assicurare che la produzione alimentare non sia messa a rischio e tale da fare in modo che lo sviluppo economico proceda in maniera sostenibile». Originariamente l’accordo non era legalmente vincolante, in quanto si limitava a riconoscere responsabilità comuni ma differenziate (principio cardine della convenzione è la responsabilità comune ma differenziata tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo), e non prevedeva limiti obbligatori, né verifiche sull’operato degli Stati. Contemplava comunque la possibilità di aggiornamenti successivi (c.d. protocolli) che avrebbero imposto limiti obbligatori per le emissioni. I Paesi aderenti si sono riuniti annualmente nella Conferenza delle Parti (COP) per valutare gli sviluppi compiuti nell’affrontare il problema.
2 Il principale gas a effetto serra è il vapore acqueo, H2O, responsabile per circa due terzi dell’effetto serra naturale.
3 Si tratta del meccanismo che contribuisce al mantenimento della temperatura terrestre entro soglie adeguate alla vita del pianeta. L’aumento di concentrazione di CO2 in atmosfera, causato da attività antropiche (industria, trasporti, riscaldamento, agricoltura e allevamento) che richiedono l’ossidazione di sostanze contenenti carbonio, accentua l’effetto serra e provoca un innalzamento della temperatura della superficie terrestre, con danni ambientali difficilmente controllabili.
4 Secondo il quinto rapporto dell’IPCC (Fifth Assessment Report), le concentrazioni atmosferiche di anidrite carbonica, metano e protossido di azoto sono ai livelli più elevati rispetto agli ultimi ottocentomila anni. In particolare, le concentrazionidi CO2 sono aumentate ad oggi del 40 per cento rispetto ai livelli pre-industriali, principalmente a causa delle emissioni legate all’impiego dei combustibili fossili e, secondariamente, per le emissioni legate al cambiamento d’uso del suolo. Continuando ad emettere ai trend attuali, gli scenari indicano un aumento della temperatura media terrestre a fine secolo di 4 o 5° C rispetto ai valori attuali. Inoltre, secondo i dati pubblicati dall’americano National Oceanic and Atmospheric Administration, il 2015 è risultato l’anno più caldo degli ultimi anni (dicembre è stato il mese più caldo dell’intera serie di dati in possesso dell’organismo, ossia degli ultimi 136 anni). Comprendendo il 2015, quindici dei sedici anni più caldi mai registrati si sono verificati nel corso del XXI secolo. Cfr. MATTM-ENEA-ISPRA, Parigi e oltre. Gli impegni nazionali sul cambiamento climatico al 2030, Spoleto, 2016, passim.
5 Gas «climalteranti» sono i gas ad effetto serra influenzati direttamente dall’azione dell’uomo. Quindi: l’anidride carbonica, il protossido di azoto, il metano, l’esafluoruro di zolfo e gli alocarburi. Si veda G. SILVESTRINI, 2 C, Milano, 2015, 232.
6 Orbene, l’adozione di un approccio fondato sull’impianto classico della responsabilità internazionale degli Stati si scontra con ostacoli afferenti all’elemento sia oggettivo sia soggettivo dell’illecito. In primo luogo, nell’accertamento della violazione del diritto internazionale, laddove si prescindesse dalla disciplina iscritta nell’alveo della Convenzione quadro sul cambiamento climatico, si profilerebbero quantomeno due quesiti, pertinente l’uno all’esistenza di più generali regole a tutela dell’ambiente applicabili anche al cambiamento climatico, l’altro alla vigenza di un ipotetico divieto avente ad oggetto il cambiamento climatico ex se. Peraltro, dette perplessità ne genererebbero ulteriori rispetto alla regola tempus regit actum, a causa dell’incertezza relativa alla collocazione temporale sia delle eventuali regole internazionale rilevanti, sia del fenomeno del cambiamento climatico. In secondo luogo, quanto all’imputazione statale, particolari difficoltà si porrebbero con riferimento a un’eventuale norma interdicente il cambiamento climatico come tale, giacché sarebbe arduo ascrivere un fenomeno su vasta scala quale il cambiamento climatico a particolari Stati.
  7 In inglese vi è una distinzione tra State Responsibility e State Liability. È la liability che rileva particolarmente ai nostri fini, dal momento che essa si riferisce ad atti ed attività leciti (injurious consequences arising out of acts not prohibited by international law) e che tuttavia producono danni. La State Responsibility invece regola la responsabilità degli Stati per atti illeciti e/o illegali (wrongful acts).Vedi, per il primo tipo di responsabilità: International Law Commission Draft articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, with commentaries, Yearbook of the International Law Commission, 2001, vol. II, Part Two; per il secondo: International Law Commission International liability for injurious consequences arising out of acts not prohibited by international law.Yearbook of the International Law Commission, 1996, vol. II, Part Two, Annex I and risoluzione UNGA51/160.
  8 Magraw D. (1990) Legal Treatment of Developing Countries: Differential, Contextual and Absolute Norms (1990) I Colorado Journal of International Environmental Law and Policy 69.
9 I c.d. «contributi determinati a livello nazionale» (INDCs -Intended Nationally Determined Contributions).
10 L’organismo scientifico deputato, nell’ambito delle Nazioni Unite, a valutare lo stato delle conoscenze sul clima e sui cam-biamenti climatici, individuare le conseguenze del riscaldamento globale sull’ambiente e prospettare ai decisori politici possibili misure e risposte strategiche è l’IPCC - Intergovernmental Panel on Climate Change, istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dall’United Environment Program (UNEP).
Nel 1990, il primo rapporto dell’IPCC ha formulato solo ipotesi sui possibili effetti dell’attività dell’uomo sul clima, sulla base delle quali, in applicazione del principio di precauzione, è stata adottata la Convenzione quadro sul clima di Rio de Janeiro del 1992. Con il quarto rapporto dell’IPCC del 2007 si è giunti alla conclusione che il cambiamento climatico è dovuto all’azione dell’uomo con un grado di probabilità tra il 90 ed il 99 per cento e si è indicata la necessità di contenere l’aumento della temperatura alla fine del secolo entro i 2° C rispetto ai livelli preindustriali. Il quinto rapporto dell’IPCC afferma in maniera incontrovertibile che il cambiamento climatico è in atto ed è fortemente legato all’influenza antropica sul sistema climatico. Sul tema la letteratura è vastissima. Si vedano, per un approfondimento: MATTM - ENEA - ISPRA, Parigi e oltre, cit.; A. PASINI (a cura di), Kyoto e dintorni. I cambiamenti climatici come problema globale, Milano, 2007; M. MONTINI, Il cambiamento climatico e il Protocollo di Kyoto, in Quaderni della Rivista giuridica dell’ambiente, Speciale 20 Anni, 2006, 21 e ss.; S. NESPOR - A. L. DE CESARIS, Le lunghe estati calde. Il cambiamento climatico e il Protocollo di Kyoto, Bologna, 2004.
11 La Decisione, in particolare, prevede la revisione dei contributi volontari degli Stati e della loro reale efficacia a partire al 2018, in quanto «viene notato con preoccupazione che i livelli di emissione di gas serra complessivamente valutati al 2025 e 2030, risultanti dai contributi volontari dichiarati dagli Stati, non permettono di stare in linea con la traiettoria di temperatura dei 2 gradi» (senza una revisione e aumento degli impegni volontari presi ad oggi si stima un aumento di temperatura da 2,7 a 3°C -UNEP, Emission Gap Report 2015). La Decisione istituisce inoltre un apposito organismo con il compito di assistere i Paesi aderenti nella fase antecedente all’entrata in vigore dell’Accordo ed invita l’IPCC a preparare per il 2018 un rapporto speciale sugli impatti e sulla traiettoria di emissioni relative ad un incremento di temperatura di 1,5 gradi. Sono altresì previsti incontri tra le Parti nel 2018 per un dialogo costruttivo sull’efficacia dei contributi volontari assunti e per verificare i tempi per il raggiungimento del picco delle emissioni di gas serra.
12 Il Protocollo di Kyoto, adottato nel 1997, ha previsto obblighi vincolanti di contenimento delle emissioni di gas serra a carico dei 37 paesi industrializzati. Nel 1994, anno successivo all’entrata in vigore della Convenzione quadro, si è svolta a Berlino la prima Conferenza delle Parti (COP-1), durante la quale venne stabilito di dare avvio ad un nuovo processo negoziale per elaborare una bozza di trattato, al fine di rendere più stringenti gli obblighi di riduzione delle emissioni a carico dei Paesi (Allegato 1, c.d. Mandato di Berlino). Il Berlin Mandate stabiliva espressamente, in attuazione del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, che non sarebbero stati imposti obblighi di riduzione o oneri procedurali aggiuntivi a carico dei Paesi in via di sviluppo. Il Protocollo integrativo della Convenzione quadro, presentato durante la terza Conferenza delle Parti (COP-3) di Kyoto, prevede la riduzione media delle emissioni del 5,8 per centorispetto al livello raggiunto nel 1990, nel corso del primo periodo di impegno, dal 2008 al 2012 (il secondo periodo di impegno, relativo al 2013-2020, è stato definito nel corso della COP-17 tenutasi a Durban nel 2011) e mette a punto tre strumenti innovativi, i c.d. meccanismi flessibili, per aiutare i Paesi industrializzati a raggiungere i propri obiettivi di riduzione in modo economico (Emission Trading, Joint Implemention, Clean Development Mechanism). Il Protocollo è entrato in vigore il 16 febbraio 2005, novanta giorni dopo che, con la ratifica della Russia, è stata raggiunta la «doppia soglia» prevista dal Trattato. Ad oggi, le Parti del Protocollo sono 192 (191 Stati e l’UE), rappresentanti il 63,7 per cento delle emissioni totali dei Paesi industrializzati. Gli Stati Uniti, dopo aver firmato il Protocollo di Kyoto, non lo hanno ratificato - per decisione dell’allora Presidente G.W Bush - e il Canada il 13 dicembre 2011, in occasione della COP-17, ha dichiarato di non voler più aderire al Trattato. L’Unione europea si è impegnata a ridurre le emissioni dell’8 per cento rispetto ai livelli del 1990, nel quinquennio 2008-2012. Ad essa è riconosciuta, dall’art. 4 del Protocollo, la facoltà di ridistribuire tra i suoi Stati membri gli obiettivi ad essa imposti, purché rimanga invariato il risultato finale di riduzione globale delle emissioni: ogni Stato membro contribuirà in diversa misura, ma la somma totale delle emissioni antropiche all’interno della c.d. bubble europea dovrà essere quello previsto. Il Burden Sharing Agreement, l’accordo politico sulla ripartizione degli oneri, prevede per l’Italia un impegno di riduzione delle emissioni pari al 6,5 per cento. In dottrina, si vedano il fascicolo n. 1 del 2005 della Rivista giuridica dell’ambiente, interamente dedicato al protocollo di Kyoto; F.RANGHIERI (a cura di), Sostenibilità e cambiamenti climatici, Milano, 2005; S. ALAIMO, Protocollo di Kyoto, Firenze, 2005.
13 I Paesi elencati nell’allegato 1 della Convenzione di Rio.
14 Il 2 agosto 2016 la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha pubblicato la relazione finale delle parti del protocollo di Kyoto per il primo periodo di impegno («CP 1»), corrispondente agli anni 2008-2012. Durante questo periodo le emissioni dell’UE sono state di 23,5 Gt CO2 eq. a fronte di un obiettivo cumulativo di 26,7, Gt CO2 eq.; quindi, l’obiettivo è stato raggiunto con un margine del 12 per cento.
15 I diritti alla salute, all’eguaglianza di genere, all’accrescimento dei diritti delle donne, all’equità intergenerazionale e i diritti delle popolazioni indigene, delle comunità locali, dei migranti, dei minori, delle persone con disabilità e dei soggetti in situazioni di vulnerabilità allo sviluppo. Alcuni diritti richiamati nel Preambolo compaiono per la prima volta in un documento in materia di clima e lotta al cambiamento climatico.
 
 
Cosa si intende con l'espressione “loss and damage” (perdite e danni)? Si intende quella serie di impatti negativi legati ai cambiamenti climatici che non possono essere evitati né con misure di mitigazione né di adattamento. In tal senso, si è progressivamente sviluppato, in seno alle Conferenze ONU sul clima, il principio secondo il quale i Paesi più vulnerabili rispetto alle conseguenze del cambiamento climatico debbano essere compensati a livello patrimoniale dai Paesi che abbiano fallito nella regolamentazione e progressiva riduzione delle emissioni.
Variano molto tra Paesi e zone perchè dipendono dalla vulnerabilità sociale, ovvero dalle risorse e dai metodi che le persone e le società hanno a disposizione per fronteggiare calamità come alluvioni, uragani, siccità. È stato osservato che nei paesi più ricchi i danni sono soprattutto di tipo economico. Nei paesi in via di sviluppo invece le conseguenze si misurano in termini di vite umane e di danni ad infrastrutture fondamentali (case, ospedali, acquedotti, etc.) che i governi non sono in grado di ripristinare in tempo utile.
 
§ 1. Premessa.
Gli studi pubblicati su Global Warming mettono insieme osservazioni e analisi raccolte in nove Paesi tra i più vulnerabili in Asia, Africa e Pacifico. I casi studiati coprono un’ampia varietà di fenomeni: l’impatto della variazione delle pioggie monsoniche sulla vita dei contadini in Butan, i danni causati dalla maggiore salinità delle aree costiere in Bangladesh, l’erosione delle coste nell’isola di Korsae in Micronesia, le alluvioni in Nepal, Kenya ed Etiopia, la siccità che colpisce le regioni settentrionali del Gambia e del Burkina Faso e la combinazione di alluvioni e siccità in Mozambico.
Gli autori hanno osservato che nella maggior parte dei casi le popolazioni che si trovano a fronteggiare disastri naturali legati al clima cercano di reagire, di prevenire o di adattarsi, ma spesso le misure di prevenzione e di adattamento non sono sufficienti a limitare i danni, oppure hanno dei costi insostenibili che danneggiano non solo l’economia di un Paese o di un’area, ma anche il benessere sociale (inclusi costi non economici, come mangiare meno in condizioni di scarsità alimentare, o ridurre la possibilità dei bambini di andare a scuola). In alcuni casi, le misure prese per fronteggiare un’emergenza nel lungo periodo si rivelano controproducenti. Per esempio utilizzare le riserve per la semina come cibo quando le alluvioni distruggono un raccolto, nel caso del Kenya, o costruire di barriere di protezione lungo le coste che alla lunga ne favoriscono l’erosione, in Gambia e Micronesia. Infine ci sono situazioni in cui le misure non vengono prese affatto, o perchè mancano le capacità (economiche, tecnologiche) o perchè, semplicemente, è impossibile.
Il tema dei loss and damage è relativamente recente nella ricerca scientifica e nelle politiche climatiche. All’inizio l’attenzione era puntata sulla mitigazione, ovvero come, quanto e chi deve ridurre le emissioni per evitare un aumento eccessivo della temperatura globale. Dato che i gas serra in atmosfera ci mettono anche migliaia di anni prima di essere smaltiti (la CO2, il gas serra più diffuso, ha una “vita” di 30-100 anni), un certo aumento è inevitabile. Si è passati quindi a considerare anche le strategie di adattamento, un’impresa complessa perchè gli effetti variano molto su scala globale e regionale. Inoltre il ritardo accumulato nell’elaborare metodi e strumenti accessibili rende l’adattamento sempre più costoso.
È indubbio che un meccanismo di aiuto per i paesi piú esposti al cambiamento climatico sia necessario. Cosí come sta venendo affrontato, tuttavia, il tema presenta numerosi interrogativi. Primo fra tutti, il rischio di aggiungere una dimensione di responsabilità legale ai danni legati al clima. Questa dimensione sarebbe particolarmente preoccupante a causa della difficoltà nell’attribuzione di un evento specifico al cambiamento climatico. Una difficoltà addizionale deriva dalle dinamiche climatiche a lungo termine, per esempio l’innalzamento del livello del mare, che saranno molto piú difficili da quantificare e gestire rispetto ai singoli eventi estremi. Ovviamente, i paesi che si prospetterebbero riceventi dell’aiuto si stanno schierando a favore del loss and damage, mentre i paesi industrializzati sono molto cauti sul tema, se non apertamente contrari.
§ 2. COP-16 di Cancùn (2010). COP-18 di Doha (2012).
La richiesta di supportare i Paesi più esposti e/o vulnerabili nella compensazione dei danni associati agli impatti dei cambiamenti climatici fu sollevata per la prima volta nel 1991 dai Paesi AOSIS (l’Alleanza delle Piccole Isole).
Nel corso degli ultimi tempi si è rafforzato l’interesse della Conferenza su questo aspetto.
La decisione di affrontare questa tematica è stata assunta nella Decisione della COP-16 di Cancùn (Messico) del 2010, dove peraltro si è stabilito di organizzare un programma di lavoro specificatamente dedicato all’argomento nel quadro delle misure di adattamento al cambiamento climatico (Cancun Adaptation Framework).
A Doha (Quatar) è stato (timidamente) annunciato che i negoziati “prenderanno in considerazione le opzioni” per creare un meccanismo internazionale che affronti “perdite e danni” dei cambiamenti climatici. Una conquista per i Paesi meno sviluppati (Least Developed Countries) e per il gruppo degli stati isolani (AOSIS) che da anni chiedevano azioni più decise. Il testo di Doha rimane generico, parlando di gestione integrata dei rischi e coordinazione e sinergie tra vari organismi, rinviando alla COP di Varsavia la definizione di accordi specifici sul tema. Un ipotetico meccanismo di compensazione si baserebbe su aiuti, sia finanziari che in termini di sviluppo delle competenze, da parte dei paesi industrializzati a favore dei paesi meno sviluppati e piú vulnerabili agli estremi climatici (finance, technology and capacity-building, for relevant actions, nella versione originale inglese).
§ 3. COP-19 di Varsavia (Polonia). Warsaw International Mechanism for Loss and Damage.
Ancora tre anni devono passare prima che alla COP-19 di Varsavia sia approvato il Warsaw International Mechanism for Loss and Damage (indicato con l’acronimo WIM). Il documento approvato era tuttavia ancora provvisorio, in quanto restavano in sospeso molti punti di frizione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo: sulle modalità con cui affrontare il problema, sull’entità e sulla definizione degli eventi da prendere in considerazione (mai approfonditamente studiati, anche perché direttamente dipendenti dall’esito delle operazioni di mitigazione e di adattamento) e soprattutto sulla previsione di risarcimenti per i paesi che avessero subito perdite o danni (che inevitabilmente sarebbero stati a carico dei paesi più sviluppati). Il WIM prevede tre aree di attività: l’incremento delle conoscenze sui rischi e sulle modalità di far fronte alle perdite e ai danni; lo sviluppo del coordinamento e delle sinergie tra i paesi e le istituzioni; l’incremento degli strumenti tecnologici e finanziari dedicati a questo argomento.
Si tratta di un accordo molto generico e volto a delineare i tratti “istituzionali” del meccanismo: si limita, infatti, ad istituire un executive committee del meccanismo in seno all’Adaptation Body, disciplinandone la composizione e i ruoli. In particolare, tale committee doveva assolvere alla principale funzione di favorire un più stretto rapporto e scambio di informazioni tra i vari boards scientifici presenti alla Conferenza; doveva sviluppare relazioni, raccomandazioni e codici di best practices, oltre ad assumere il ruolo di guida e coordinamento volto allo sviluppo di sinergie tra i più significativi stakeholders; inoltre, dovrà studiare e supportare soluzioni tecniche e finanziarie volte a sostenere il meccanismo di compensazione-risarcimento.
È evidente come mancassero disposizioni volte alla istituzione di fondi o all’elaborazione di altri meccanismi finanziari per pervenire alla declamata compensazione (fine ultimo, come visto, del meccanismo stesso).
§ 4. COP-21 di Parigi (2015). Accordo di Parigi.
Nell’ambito del processo di adattamento rientra anche il tema delle perdite e dei danni conseguenti al cambiamento climatico, trattato dall’art. 8: è stato uno dei punti più conflittuali dell’Accordo e, più in generale, delle negoziazioni che lo hanno preceduto.
Il tema, quindi, diviene parte integrante dell’Accordo di Parigi, dove è sostanzialmente recepito il meccanismo WIM delineato a Varsavia. I paesi in via di sviluppo, in particolari i paesi AOSIS, hanno però dovuto rinunciare alla previsione di risarcimenti a carico dei paesi sviluppati: il punto 52 della Decisione esclude infatti che perdite e danni possano dar luogo a risarcimenti.
L’art. 8 così recita: “1. Le Parti riconoscono l’importanza di evitare e ridurre al minimo le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, compresi gli eventi metereologici estremi e gli eventi lenti a manifestarsi, e di porvi rimedio, così come riconoscono l’importanza del ruolo dello sviluppo sostenibile nella riduzione del rischio di perdite e danni. 2. Il meccanismo internazionale di Varsavia per le perdite e i danni associati alle conseguenze dei cambiamenti climatici è sottoposto all’autorità e alla direzione della conferenza delle Parti che funge da riunione delle Parti del presente accordo e può essere migliorato e rafforzato su decisione della conferenza delle Parti che funge da riunione delle Parti del presente accordo. 3. Le Parti dovrebbero promuovere la comprensione, l’azione e il sostegno, in particolare attraverso il meccanismo internazionale di Varsavia, ove opportuno, in modo cooperativo e facilitativo per quanto riguarda le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici. 4. In maniera analoga, le aree di cooperazione e facilitazione per migliorare la comprensione, l’azione e il sostegno possono riguardare: a) sistemi di allerta precoce; b) preparazione alle emergenze; c) eventi lenti a manifestarsi; d) eventi che possono comportare perdite e danni irreversibili e permanenti; e) valutazione complessiva e gestione del rischio; f) strumenti di assicurazione rischi, mutualizzazione dei rischi climatici e altre soluzioni assicurative; g) perdite non economiche; h) resilienza delle comunità, dei mezzi di sussistenza e degli ecosistemi. 5. Il meccanismo internazionale di Varsavia collabora con gli organismi esistenti e i gruppi di esperti previsti dall'accordo, nonché con le organizzazioni e gli enti specializzati pertinenti al di fuori dello stesso. ”.
§ 5. COP-22 di Marrakech (2016).
Nel corso dell’evento, diversi relatori hanno affrontato la tematica relativa alla valutazione del Loss and Damage (L&D) contestualmente ai negoziati UNFCCC, non mancando, tuttavia, di sottolineare le potenzialità dei meccanismi d’intervento a livello locale per garantire la mobilitazione di fondi per affrontare disastri naturali ed eventi meteorologici estremi.
Le problematiche analizzate in sede d’evento sono state:
1. meccanismi di valutazione finanziaria per il Loss & Damage e relative criticità;
2. integrazione sinergica tra sistemi nazionali ed internazionali in ambito normativo relativamente all’attribuzione delle responsabilità.
Il professor Jan Fluglestvedt, Research Director CICERO – Center for International Climate and Environmental Research, ha presentato un’analisi critica delle principali metodologie adottate per la valutazione di L&D, sottolineando le criticità legate alla definizione di parametri condivisi in materia. Il calcolo delle emissioni di gas serra da parte dei singoli Paesi deve essere calibrato definendo gli indicatori significativi, le componenti da includere nell’analisi e la tipologia di attività (extraction, territorial, consumption emissions). In sintesi, gli studi da portare avanti dovranno tener conto delle singolarità di ogni sistema paese, mentre i metodi computazionali ed i modelli analitici dovranno tener conto di aspetti slegati dalle serie storiche relative ai livelli di emissioni nazionali.
Della stessa opinione Fredi Otto, Senior Researcher presso l’Environmental Change Institute della University of Oxford, con una presentazione incentrata sul legame tra emissioni, attività produttive a livello nazionale ed eventi climatici estremi: confrontando diversi modelli statistici, è importante considerare il contributo di singole variabili e definire parametri solidi per ottenere risultati attendibili. La stessa definizione di “evento climatico estremo” deve essere investigata attentamente al fine di comprendere in quale misura ed entro quali limiti si possa attribuire ai singoli stati la responsabilità di fornire un corrispettivo economico.
Relativamente alla seconda questione, l’avvocato internazionalista Lavanya Ramajani ha sollevato alcuni aspetti salienti relativi alle difficoltà riscontrate nell’implementazione di norme condivise che vadano a costituire una base normativa concreta per legittimare le politiche elaborate per la gestione del Loss and Damage a livello globale. La tematica, pur essendo stata riconosciuta a livello negoziale quale uno degli elementi fondamentali da implementare nei prossimi anni (art. 8 dell’Accordo di Parigi), resta ancora ampiamente da discutere. In particolare, si sottolinea il fatto che quantificare e definire gli obblighi nazionali possa non risultare semplice né condivisibile a livello globale; una definizione e un framework condiviso sono strumenti indispensabili per inquadrare il problema in un’ottica sistemica.
 
Qual’è lo stato delle procedure per la bonifica delle aree contaminate inerenti i c.d. «siti di interesse nazionale per le bonifiche» (SIN)?
 
§ 1. Siti di interesse nazionale per la bonifica di Siracusa.
Secondo i dati del maggio 2017 del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare – Dipartimento Generale per la Salvaguardia del Territorio e delle Acque, l’«Area di Priolo» – sito SIN istituito dall’art. 1, comma 4, della L. 09.12.1998, n. 426 (“Interventi di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati”) – la situazione dell’iter procedurale è la seguente:
1. Bonifica matrice terreni (perimetrazione 5814 ha):
◦ 48% di aree a terra caratterizzate rispetto alla superficie del SIN;
◦ 17% di aree a terra con progetto di messa in sicurezza/bonifica presentato rispetto alla superficie del SIN;
◦ 13% di aree con progetto di messa in sicurezza/bonifica approvato con decreto rispetto alla superficie del SIN;
◦ 8% di aree con procedimento concluso (rispetto a superficie SIN) (concentrazioni < CSC o CSR);
2. Bonifica matrice acque di falda (perimetrazione 5814 ha):
1. 48% di aree a terra caratterizzate rispetto alla superficie del SIN;
2. 26% di aree a terra con progetto di messa in sicurezza/bonifica presentato rispetto alla superficie del SIN;
3. 18% di aree con progetto di messa in sicurezza/bonifica approvato con decreto rispetto alla superficie del SIN;
4. 8% di aree con procedimento concluso (rispetto a superficie SIN) (concentrazioni < CSC o CSR).
L’art. 252 del D.Lgs. n. 152/2006 così definisce i siti d’interesse nazionale: “I siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, sono individuabili in relazione alle caratteristiche del sito, alle quantità e pericolosità degli inquinanti presenti, al rilievo dell’impatto sull’ambiente circostante in termini di rischio sanitario ed ecologico, nonché di pregiudizio per i beni culturali ed ambientali.” (comma 1), ed inoltre riporta che: “All’individuazione dei siti di interesse nazionale si provvede con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, d’intesa con le regioni interessate...” (comma 2).
Fra i principi e criteri direttivi atti ad individuare i siti di interesse nazionale si annoverano, fra l’altro:
• gli interventi di bonifica devono riguardare aree e territori, compresi i corpi idrici, di particolare pregio ambientale;
• la bonifica deve riguardare aree e territori tutelati ai sensi del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” ex D.Lgs. 22.01.2004, n. 42;
• il rischio sanitario ed ambientale che deriva dal rilevato superamento delle concentrazioni soglia di rischio deve risultare particolarmente elevato in ragione della densità della popolazione o dell’estensione dell’area interessata;
• l’impatto socio economico causato dall’inquinamento dell’area deve essere rilevante;
• la contaminazione deve costituire un rischio per i beni di interesse storico e culturale di rilevanza nazionale;
• gli interventi da attuare devono riguardare siti compresi nel territorio di più regioni;
• l’insistenza, attualmente o in passato, di attività di raffinerie, di impianti chimici integrati o di acciaierie;
• sono in ogni caso individuati quali siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, i siti interessati da attività produttive ed estrattive di amianto.
Ai fini della perimetrazione del sito sono sentiti i comuni, le province, le regioni e gli altri enti locali, assicurando la partecipazione dei responsabili nonché dei proprietari delle aree da bonificare, se diversi dai soggetti responsabili.
La procedura di bonifica di cui all’art. 242 dei siti di interesse nazionale è attribuita alla competenza del Ministero dell’ambiente, sentito il Ministero delle attività produttive.
Nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia individuabile oppure non provveda il proprietario del sito contaminato né altro soggetto interessato, gli interventi sono predisposti dal Ministero dell’ambiente, avvalendosi dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT), dell’Istituto superiore di sanità e dell’E.N.E.A. nonché di altri soggetti qualificati pubblici o privati.
L’autorizzazione del progetto e dei relativi interventi sostituisce a tutti gli effetti le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla osta, i pareri e gli assensi previsti dalla legislazione vigente, ivi compresi, tra l’altro, quelli relativi alla realizzazione ed all’esercizio degli impianti e delle attrezzature necessarie alla loro attuazione. L’autorizzazione costituisce, altresì, variante urbanistica e comporta dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori. Se il progetto prevede la realizzazione di opere sottoposte a procedura di valutazione di impatto ambientale, l’approvazione del progetto di bonifica comprende anche tale valutazione.
In attesa del perfezionamento del provvedimento di autorizzazione di cui ai commi precedenti, completata l’istruttoria tecnica, il Ministro dell’ambiente può autorizzare in via provvisoria, su richiesta dell’interessato, ove ricorrano motivi d’urgenza e fatta salva l’acquisizione della pronuncia positiva di compatibilità ambientale, ove prevista, l’avvio dei lavori per la realizzazione dei relativi interventi di bonifica, secondo il progetto valutato positivamente, con eventuali prescrizioni, dalla conferenza di servizi convocata dal Ministero dell’ambiente.

§ 2. Art. 242 D.Lgs. n. 152/2006.
L’art. 242 cit. così recita: “1. Al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all’articolo 304, comma 2. La medesima procedura si applica all’atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione. 2. Il responsabile dell’inquinamento, attuate le necessarie misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla contaminazione, un’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione, al comune ed alla provincia competenti per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione. L’autocertificazione conclude il procedimento di notifica di cui al presente articolo, ferme restando le attività di verifica e di controllo da parte dell’autorità competente da effettuarsi nei successivi quindici giorni. Nel caso in cui l’inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i parametri da valutare devono essere individuati, caso per caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi svolte nel tempo. 3. Qualora l’indagine preliminare di cui al comma 2 accerti l’avvenuto superamento delle CSC anche per un solo parametro, il responsabile dell’inquinamento ne dà immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate. Nei successivi trenta giorni, presenta alle predette amministrazioni, nonché alla regione territorialmente competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all’Allegato 2 alla parte quarta del presente decreto. Entro i trenta giorni successivi la regione, convocata la conferenza di servizi, autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative. L’autorizzazione regionale costituisce assenso per tutte le opere connesse alla caratterizzazione, sostituendosi ad ogni altra autorizzazione, concessione, concerto, intesa, nulla osta da parte della pubblica amministrazione. 4. Sulla base delle risultanze della caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR). I criteri per l’applicazione della procedura di analisi di rischio sono stabiliti con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con i Ministri dello sviluppo economico e della salute entro il 30 giugno 2008. Nelle more dell’emanazione del predetto decreto, i criteri per l’applicazione della procedura di analisi di rischio sono riportati nell’Allegato 1 alla parte quarta del presente decreto. Entro sei mesi dall’approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla regione i risultati dell’analisi di rischio. La conferenza di servizi convocata dalla regione, a seguito dell’istruttoria svolta in contraddittorio con il soggetto responsabile, cui è dato un preavviso di almeno venti giorni, approva il documento di analisi di rischio entro i sessanta giorni dalla ricezione dello stesso. Tale documento è inviato ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la conferenza e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione fornisce una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza. 5. Qualora gli esiti della procedura dell’analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è inferiore alle concentrazioni soglia di rischio, la conferenza dei servizi, con l’approvazione del documento dell’analisi del rischio, dichiara concluso positivamente il procedimento. In tal caso la conferenza di servizi può prescrivere lo svolgimento di un programma di monitoraggio sul sito circa la stabilizzazione della situazione riscontrata in relazione agli esiti dell’analisi di rischio e all’attuale destinazione d’uso del sito. A tal fine, il soggetto responsabile, entro sessanta giorni dall’approvazione di cui sopra, invia alla provincia ed alla regione competenti per territorio un piano di monitoraggio nel quale sono individuati: a) i parametri da sottoporre a controllo; b) la frequenza e la durata del monitoraggio. 6. La regione, sentita la provincia, approva il piano di monitoraggio entro trenta giorni dal ricevimento dello stesso. L’anzidetto termine può essere sospeso una sola volta, qualora l’autorità competente ravvisi la necessità di richiedere, mediante atto adeguatamente motivato, integrazioni documentali o approfondimenti del progetto, assegnando un congruo termine per l’adempimento. In questo caso il termine per l’approvazione decorre dalla ricezione del progetto integrato. Alla scadenza del periodo di monitoraggio il soggetto responsabile ne dà comunicazione alla regione ed alla provincia, inviando una relazione tecnica riassuntiva degli esiti del monitoraggio svolto. Nel caso in cui le attività di monitoraggio rilevino il superamento di uno o più delle concentrazioni soglia di rischio, il soggetto responsabile dovrà avviare la procedura di bonifica di cui al comma 7. 7. Qualora gli esiti della procedura dell’analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è superiore ai valori di concentrazione soglia di rischio (CSR), il soggetto responsabile sottopone alla regione, nei successivi sei mesi dall’approvazione del documento di analisi di rischio, il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente nel sito. Per la selezione delle tecnologie di bonifica in situ più idonee, la regione può autorizzare l’applicazione a scala pilota, in campo, di tecnologie di bonifica innovative, anche finalizzata all’individuazione dei parametri di progetto necessari per l’applicazione a piena scala, a condizione che tale applicazione avvenga in condizioni di sicurezza con riguardo ai rischi sanitari e ambientali. Nel caso di interventi di bonifica o di messa in sicurezza di cui al primo periodo, che presentino particolari complessità a causa della natura della contaminazione, degli interventi, delle dotazioni impiantistiche necessarie o dell’estensione dell’area interessata dagli interventi medesimi, il progetto può essere articolato per fasi progettuali distinte al fine di rendere possibile la realizzazione degli interventi per singole aree o per fasi temporali successive. Nell’ambito dell’articolazione temporale potrà essere valutata l’adozione di tecnologie innovative, di dimostrata efficienza ed efficacia, a costi sopportabili, resesi disponibili a seguito dello sviluppo tecnico-scientifico del settore. La regione, acquisito il parere del comune e della provincia interessati mediante apposita conferenza di servizi e sentito il soggetto responsabile, approva il progetto, con eventuali prescrizioni ed integrazioni entro sessanta giorni dal suo ricevimento. Tale termine può essere sospeso una sola volta, qualora la regione ravvisi la necessità di richiedere, mediante atto adeguatamente motivato, integrazioni documentali o approfondimenti al progetto, assegnando un congruo termine per l’adempimento. In questa ipotesi il termine per l’approvazione del progetto decorre dalla presentazione del progetto integrato. Ai soli fini della realizzazione e dell’esercizio degli impianti e delle attrezzature necessarie all’attuazione del progetto operativo e per il tempo strettamente necessario all'attuazione medesima, l’autorizzazione regionale di cui al presente comma sostituisce a tutti gli effetti le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla osta, i pareri e gli assensi previsti dalla legislazione vigente compresi, in particolare, quelli relativi alla valutazione di impatto ambientale, ove necessaria, alla gestione delle terre e rocce da scavo all’interno dell’area oggetto dell’intervento ed allo scarico delle acque emunte dalle falde. L’autorizzazione costituisce, altresì, variante urbanistica e comporta dichiarazione di pubblica utilità, di urgenza ed indifferibilità dei lavori. Con il provvedimento di approvazione del progetto sono stabiliti anche i tempi di esecuzione, indicando altresì le eventuali prescrizioni necessarie per l’esecuzione dei lavori ed è fissata l’entità delle garanzie finanziarie, in misura non superiore al cinquanta per cento del costo stimato dell’intervento, che devono essere prestate in favore della regione per la corretta esecuzione ed il completamento degli interventi medesimi. 8. I criteri per la selezione e l’esecuzione degli interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in sicurezza operativa o permanente, nonché per l’individuazione delle migliori tecniche di intervento a costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle normative comunitarie sono riportati nell’Allegato 3 alla parte quarta del presente decreto. 9. La messa in sicurezza operativa, riguardante i siti contaminati [con attività in esercizio], garantisce una adeguata sicurezza sanitaria ed ambientale ed impedisce un’ulteriore propagazione dei contaminanti. I progetti di messa in sicurezza operativa sono accompagnati da accurati piani di monitoraggio dell’efficacia delle misure adottate ed indicano se all’atto della cessazione dell’attività si renderà necessario un intervento di bonifica o un intervento di messa in sicurezza permanente. Possono essere altresì autorizzati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di messa in sicurezza degli impianti e delle reti tecnologiche, purché non compromettano la possibilità di effettuare o completare gli interventi di bonifica che siano condotti adottando appropriate misure di prevenzione dei rischi. 10. Nel caso di caratterizzazione, bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale di siti con attività in esercizio, la regione, fatto salvo l’obbligo di garantire la tutela della salute pubblica e dell’ambiente, in sede di approvazione del progetto assicura che i suddetti interventi siano articolati in modo tale da risultare compatibili con la prosecuzione della attività. 11. Nel caso di eventi avvenuti anteriormente all’entrata in vigore della parte quarta del presente decreto che si manifestino successivamente a tale data in assenza di rischio immediato per l’ambiente e per la salute pubblica, il soggetto interessato comunica alla regione, alla provincia e al comune competenti l’esistenza di una potenziale contaminazione unitamente al piano di caratterizzazione del sito, al fine di determinarne l’entità e l'estensione con riferimento ai parametri indicati nelle CSC ed applica le procedure di cui ai commi 4 e seguenti. 12. Le indagini ed attività istruttorie sono svolte dalla provincia, che si avvale della competenza tecnica dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente e si coordina con le altre amministrazioni. 13. La procedura di approvazione della caratterizzazione e del progetto di bonifica si svolge in Conferenza di servizi convocata dalla regione e costituita dalle amministrazioni ordinariamente competenti a rilasciare i permessi, autorizzazioni e concessioni per la realizzazione degli interventi compresi nel piano e nel progetto. La relativa documentazione è inviata ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la discussione e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione deve fornire una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza. Compete alla provincia rilasciare la certificazione di avvenuta bonifica. Qualora la provincia non provveda a rilasciare tale certificazione entro trenta giorni dal ricevimento della delibera di adozione, al rilascio provvede la regione. 13-bis. Per la rete di distribuzione carburanti si applicano le procedure semplificate di cui all’articolo 252, comma 4.”.

§ 2.1. Art. 240 del D.Lgs. n. 152/2006.
Si riportano le definizioni dell’art. 240 del D.Lgs. n. 152/2006:
• Messa in sicurezza d’emergenza [art. 240, comma 1, lett. m), T.U. Amb.]: ogni intervento immediato o a breve termine, da mettere in opera nelle condizioni di emergenza di cui alla lettera t) in caso di eventi di contaminazione repentini di qualsiasi natura, atto a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito e a rimuoverle, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente.
• Messa in sicurezza operativa [art. 240, comma 1, lett. n), T.U. Amb.]: l’insieme degli interventi eseguiti in un sito con attività in esercizio atti a garantire un adeguato livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente, in attesa di ulteriori interventi di messa in sicurezza permanente o bonifica da realizzarsi alla cessazione dell’attività. Essi comprendono altresì gli interventi di contenimento della contaminazione da mettere in atto in via transitoria fino all’esecuzione della bonifica o della messa in sicurezza permanente, al fine di evitare la diffusione della contaminazione all’interno della stessa matrice o tra matrici differenti. In tali casi devono essere predisposti idonei piani di monitoraggio e controllo che consentano di verificare l’efficacia delle soluzioni adottate.
• Messa in sicurezza permanente [art. 240, comma 1, lett. o), T.U. Amb.]: l’insieme degli interventi atti a isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti e a garantire un elevato e definitivo livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente. In tali casi devono essere previsti piani di monitoraggio e controllo e limitazioni d’uso rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici.
• Bonifica [art. 240, comma 1, lett. p), T.U. Amb.]: l’insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio.
• Ripristino ambientale [art. 240, comma 1, lett. q), T.U. Amb.]: gli interventi di riqualificazione ambientale e paesaggistica, anche costituenti complemento degli interventi di bonifica o messa in sicurezza permanente, che consentono di recuperare il sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso conforme agli strumenti urbanistici.

§ 2.2. Artt. 244, 245, 246, 248 del D.Lgs. n. 152/2006.
L’art. 244 del D.Lgs. n. 152/2006 precisa che le pubbliche amministrazioni che nell’esercizio delle proprie funzioni individuano siti nei quali accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune competenti. La provincia, ricevuta la detta comunicazione, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo. Se il responsabile non sia individuabile o non provveda e non provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi che risultassero necessari ai sensi del presente titolo sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’art. 250.
L’art. 245 del D.Lgs. n. 152/2006 precisa che le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili. Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all’art. 242, il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti ed attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’art. 242. La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il comune, per l’identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità.
L’art. 246 del D.Lgs. n. 152/2006 precisa che i soggetti obbligati agli interventi di cui al presente titolo ed i soggetti altrimenti interessati hanno diritto di definire modalità e tempi di esecuzione degli interventi mediante appositi accordi di programma stipulati, entro sei mesi dall’approvazione del documento di analisi di rischio di cui all’art. 242, con le amministrazioni competenti ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo.
L’art. 248 del D.Lgs. n. 152/2006 precisa che la documentazione relativa al piano della caratterizzazione del sito ed al progetto operativo, comprensiva delle misure di riparazione, dei monitoraggi da effettuare, delle limitazioni d’uso e delle prescrizioni eventualmente dettate ai sensi dell’art. 242, comma 4, è trasmessa alla provincia ed all’A.R.P.A. competenti ai fini dell’effettuazione dei controlli sulla conformità degli interventi ai progetti approvati. Il completamento degli interventi di bonifica, di messa in sicurezza permanente e di messa in sicurezza operativa, nonché la conformità degli stessi al progetto approvato sono accertati dalla provincia mediante apposita certificazione sulla base di una relazione tecnica predisposta dall’A.R.P.A. territorialmente competente.
L’art. 250 del D.Lgs. n. 152/2006 precisa che qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’art. 242 sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l’ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate.

§ 3. Reati applicabili.
452-bis c.p. (“Inquinamento ambientale”)
[I]. È punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 100.000 chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili:
1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo;
2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.
[II]. Quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.
Articolo 452-ter (“Morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale”)
[I]. Se da uno dei fatti di cui all’articolo 452-bis deriva, quale conseguenza non voluta dal reo, una lesione personale, ad eccezione delle ipotesi in cui la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni, si applica la pena della reclusione da due anni e sei mesi a sette anni; se ne deriva una lesione grave, la pena della reclusione da tre a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la pena della reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva la morte, la pena della reclusione da cinque a dieci anni.
[II]. Nel caso di morte di più persone, di lesioni di più persone, ovvero di morte di una o più persone e lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per l’ipotesi più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti.
Articolo 452-quater (“Disastro ambientale”).
[I]. Fuori dai casi previsti dall’articolo 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. Costituiscono disastro ambientale alternativamente:
1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;
2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;
3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
[II]. Quando il disastro è prodotto in un'area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata.
Articolo 452-quinquies (“Delitti colposi contro l’ambiente”).
[I]. Se taluno dei fatti di cui agli articoli 452-bis e 452-quater è commesso per colpa, le pene previste dai medesimi articoli sono diminuite da un terzo a due terzi.
[II]. Se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente deriva il pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo.
Articolo 452-septies (“Impedimento del controllo”).
 
[I]. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, negando l'accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l'attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
 
Articolo 452-octies (“Circostanze aggravanti”).
[I]. Quando l'associazione di cui all'articolo 416 è diretta, in via esclusiva o concorrente, allo scopo di commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo, le pene previste dal medesimo articolo 416 sono aumentate.
[II]. Quando l'associazione di cui all'articolo 416-bis è finalizzata a commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo ovvero all'acquisizione della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi pubblici in materia ambientale, le pene previste dal medesimo articolo 416-bis sono aumentate.
[III]. Le pene di cui ai commi primo e secondo sono aumentate da un terzo alla metà se dell'associazione fanno parte pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio che esercitano funzioni o svolgono servizi in materia ambientale.
Articolo 452-nonies (“Aggravante ambientale”).
[I]. Quando un fatto già previsto come reato è commesso allo scopo di eseguire uno o più tra i delitti previsti dal presente titolo, dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, o da altra disposizione di legge posta a tutela dell'ambiente, ovvero se dalla commissione del fatto deriva la violazione di una o più norme previste dal citato decreto legislativo n. 152 del 2006 o da altra legge che tutela l’ambiente, la pena nel primo caso è aumentata da un terzo alla metà e nel secondo caso è aumentata di un terzo. In ogni caso il reato è procedibile d’ufficio.
Articolo 452-decies (“Ravvedimento operoso”).
[I]. Le pene previste per i delitti di cui al presente titolo, per il delitto di associazione per delinquere di cui all’articolo 416 aggravato ai sensi dell’articolo 452-octies, nonché per il delitto di cui all’articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, sono diminuite dalla metà a due terzi nei confronti di colui che si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi, e diminuite da un terzo alla metà nei confronti di colui che aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nell’individuazione degli autori o nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti.
[II]. Ove il giudice, su richiesta dell’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado disponga la sospensione del procedimento per un tempo congruo, comunque non superiore a due anni e prorogabile per un periodo massimo di un ulteriore anno, al fine di consentire le attività di cui al comma precedente in corso di esecuzione, il corso della prescrizione è sospeso.
Articolo 452-undecies (“Confisca”).
[I]. Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per i delitti previsti dagli articoli 452-bis, 452-quater, 452-sexies, 452-septies e 452-octies del presente codice, è sempre ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato.
[II]. Quando, a seguito di condanna per uno dei delitti previsti dal presente titolo, sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca.
[III]. I beni confiscati ai sensi dei commi precedenti o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all’uso per la bonifica dei luoghi.
[IV]. L’istituto della confisca non trova applicazione nell’ipotesi in cui l'imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi.
Articolo 452-duodecies (“Ripristino dello stato dei luoghi”).
[I]. Quando pronuncia sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per taluno dei delitti previsti dal presente titolo, il giudice ordina il recupero e, ove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, ponendone l'esecuzione a carico del condannato e dei soggetti di cui all’articolo 197 del presente codice.
[II]. Al ripristino dello stato dei luoghi di cui al comma precedente si applicano le disposizioni di cui al titolo II della parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in materia di ripristino ambientale.
Articolo 452-terdecies (“Omessa bonifica”).
[I]. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000.
Articolo 257 D.Lgs. n. 152/2006 (“Bonifica dei siti”)
1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno o con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti. In caso di mancata effettuazione della comunicazione di cui all’articolo 242, il trasgressore è punito con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da mille euro a ventiseimila euro.
2. Si applica la pena dell'arresto da un anno a due anni e la pena dell’ammenda da cinquemiladuecento euro a cinquantaduemila euro se l'inquinamento è provocato da sostanze pericolose.
3. Nella sentenza di condanna per la contravvenzione di cui ai commi 1 e 2, o nella sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato alla esecuzione degli interventi di emergenza, bonifica e ripristino ambientale.
4. L’osservanza dei progetti approvati ai sensi degli articoli 242 e seguenti costituisce condizione di non punibilità per le contravvenzioni ambientali contemplate da altre leggi per il medesimo evento e per la stessa condotta di inquinamento di cui al comma 1.
 
 
 

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